«Baciare il rospo?» era il dilemma sul governo «tecnico» guidato da Lamberto Dini dopo la caduta del primo Berlusconi, agli inizi del ’95. Il vicedirettore dell’epoca Pierluigi Sullo ne ricorda la genesi, e qui sotto ripubblichiamo l’editoriale di Luigi Pintor. Vi ricorda qualcosa? Se si dovesse o meno “baciare il rospo” fu la domanda finale, e alquanto deprimente, di un anno fiammeggiante, per l’Italia e per il manifesto. In marzo, Berlusconi vinse per la prima volta le elezioni con i suoi compari fascisti e leghisti; pochi giorni prima era andato in edicola un giornale molto originale, formato tabloid, che si presentava con una copertina fatta di un titolo e di una immagine, e basta. Accompagnato, per altro, da una campagna pubblicitaria divenuta celebre: «La rivoluzione non russa».
«Baciare il rospo?» era il dilemma sul governo «tecnico» guidato da Lamberto Dini dopo la caduta del primo Berlusconi, agli inizi del ’95. Il vicedirettore dell’epoca Pierluigi Sullo ne ricorda la genesi, e qui sotto ripubblichiamo l’editoriale di Luigi Pintor. Vi ricorda qualcosa? Se si dovesse o meno “baciare il rospo” fu la domanda finale, e alquanto deprimente, di un anno fiammeggiante, per l’Italia e per il manifesto. In marzo, Berlusconi vinse per la prima volta le elezioni con i suoi compari fascisti e leghisti; pochi giorni prima era andato in edicola un giornale molto originale, formato tabloid, che si presentava con una copertina fatta di un titolo e di una immagine, e basta. Accompagnato, per altro, da una campagna pubblicitaria divenuta celebre: «La rivoluzione non russa».
Le vicende del nuovo fenomeno della politica italiana e del quotidiano più sarcastico del momento si intrecciarono inevitabilmente. Per dirne una, fu il manifesto a iniziare la valanga che divenne, il 25 aprile, la straordinaria ed eroica (per via della pioggia torrenziale) manifestazione di Milano.
Solo alla fine dell’anno il Puzzone e il suo inesauribile antagonista separarono i loro destini. La Lega decise di fare il famoso “ribaltone” e fece cadere il governo. Noi salutammo l’evento con una copertina che rappresentava una targa stradale, di quelle intitolate e personaggi del passato: Via S. Berlusconi. Ce la ridevamo molto, facendo prime pagine così. E il giornale vendeva una media di 52 mila copie al giorno.
Quel che ci mise in difficoltà fu Dini. Il banchiere scelto per formare il nuovo governo non era precisamente la personificazione di quel che avevamo sperato. E quella sera eravamo in imbarazzo, noi tre che di solito la sera ci sedevamo nell’ufficio del caporedattore – con la partecipazione di chiunque volesse – per inventare la copertina del giorno dopo. I tre erano Luigi Pintor, direttore, Riccardo Barenghi, caporedattore, e il sottoscritto, vicedirettore. Ormai era tardi, bisognava tirar fuori qualche idea. Io dissi, abbacchiato: «Eh, qui dobbiamo chiederci se ingoiare il rospo». Luigi mi guardò fisso per un lungo momento: «No – disse – non ingoiare, ma baciare il rospo». Come nelle favole, voleva dire, quando il rospo baciato diventa un principe. La fisionomia di Dini, ci dicemmo con lo sguardo, aiutava. Riccardo chiamò il grafico, il giovane e geniale Vincenzo Scarpellini, ora purtroppo scomparso, e gli disse: «Vincè, trova un bel rospo da mettere in copertina». Ma Luigi aveva ancora un dettaglio: «Ci vuole il punto interrogativo». Lui era nemico dei punti di domanda (per non parlare degli esclamativi) nei titoli, ma in quel caso pensò di dover fare una eccezione. Perché Baciare il rospo era una resa, Baciare il rospo? invece rendeva bene l’angoscia e la sospensione in cui eravamo.
Quel titolo ebbe una grande fortuna, quasi quanto Non moriremo democristiani e un po’ più del laconico Massacro con cui salutammo l’inizio della prima guerra del Golfo. Ancora oggi si dice “baciare il rospo?”, di Dini non si ricorda più nessuno.
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NÉ PIÙ NÉ MENO
Luigi Pintor
Qualcosa è successo. Berlusconi e Fini hanno mollato, o almeno allentato, la presa. Il cavaliere esce fisicamente da Palazzo Chigi, anche se ci lascia dentro una sua creatura (e due miliardi di spese di restauro). La linea «o me o le elezioni», che non era contrattuale ma netta, è caduta. Non è neppur detto che ci saranno elezioni a breve, e comunque non sarà lui il gestore. Prendiamo e portiamo a casa.
Né più né meno che questo, però. Il governo che (probabilmente) nascerà resta pessimo. Non solo per la figura del suo presidente ma per la sua funzione. Un governo della destra economica concentrata, superconfindustriale. I mercati esulteranno, perché tutti saremo (più che mai) considerati merce.
Un governo inserito in un quadro politico oscuro e anche torbido (circolano assai strane notizie) aperto a qualsiasi sbocco. Togliamoci dalla testa che si apra una «tregua», o peggio una parodia di «unità nazionale». Se ci sarà una maggioranza dai fascisti ai progressisti, il distacco della politica dall’animo pubblico diventerà abissale.
Dire che Berlusconi e Fini hanno allentato la presa non significa che abbiano perso il manico del coltello. Un passo indietro e due avanti. Berlusconi lancia dagli schermi nuovi proclami liberatori. Forse il carro della destra sta semplicemente accrescendo il suo carico al centro. Forse, se finora avevamo un «nemico principale», oggi ne abbiamo più d’uno.
Eppure questa crisi è anche il frutto di un movimento popolare che non si è espresso a destra ma in senso democratico. Quando capiremo, a sinistra, che bisogna cambiare terreno di gioco, respirare e far respirare aria nuova, uscire con le proprie idee e una propria unità da un labirinto che ammette solo vie di uscite negative? Non esiste il meno peggio.
(editoriale del 14 gennaio 1995)
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