Il dossier: pestaggi nelle carceri sovraffollate

Tagli, il cibo dei detenuti sparisce Nuove tensioni e pestaggi nelle celle Inchieste su un morto a Messina e un caso di violenza a Firenze

Tagli, il cibo dei detenuti sparisce Nuove tensioni e pestaggi nelle celle Inchieste su un morto a Messina e un caso di violenza a Firenze

ROMA — L’ultimo caso sul quale è in corso un’indagine riguarda Cristian De Cupis, il detenuto romano morto sabato scorso nel reparto penitenziario di un ospedale di Viterbo prima ancora di essere immatricolato in prigione; ci sono sospetti di violenze, sebbene le prime verifiche sembrano escludere il pestaggio denunciato. Prima di lui era toccato a Marcel Vitiziu, cittadino romeno di trent’anni, entrato vivo ma con evidenti lesioni nel carcere di Messina il 1° ottobre scorso e uscito cadavere due giorni più tardi. Altra nazionalità, altra città, stessa sorte.
I carabinieri avevano arrestato Vitiziu il 30 settembre, molto agitato e presumibilmente ubriaco, con le accuse di violenza, resistenza e altro. Prima di portarlo in cella, però, hanno dovuto accompagnarlo al Pronto soccorso dove le ferite del fermato erano state giudicate guaribili in trenta giorni. Dal carcere, nelle quarantott’ore di vita che gli restavano, Marcel Vitiziu ha fatto avanti e indietro con l’ospedale un altro paio di volte. E il medico che ne ha constatato il decesso per «arresto cardiaco» ha scritto che il defunto presentava un «trauma cranio-facciale datato due giorni, con minima raccolta ematica extradurale in sede parieto-occipitale posteriore sinistra». Cioè la parte posteriore della testa, lato sinistro.
Sulla morte del detenuto romeno — un senza fissa dimora e senza famiglia di cui praticamente nessuno ha chiesto conto — la Procura di Messina ha aperto un’inchiesta affidando a un gruppo di periti una ulteriore autopsia per tentare di capire se la fine del giovane uomo sia collegata alle botte ricevute (anche se fossero arrivate per mettere fine alle sue aggressioni e intemperanze), a cure inadeguate o altre ragioni. In attesa delle conclusioni si può solo aggiornare il numero dei decessi in carcere. Nel caso di Vitiziu e di De Cupis forse collegati, qualora sospetti e ipotesi investigative dovessero trovare conferma, a episodi di violenza avvenuti fuori dal carcere. Ma ci sono anche quelli commessi dietro le sbarre.
All’inizio di novembre, a Firenze, un operatore volontario ha denunciato il pestaggio di un detenuto ad opera di un agente, e il racconto della vittima — un extracomunitario — è stato riscontrato da un altro agente che avrebbe assistito alle percosse. Un rapporto è stato inviato alla magistratura che ha aperto un fascicolo, mentre proseguono gli accertamenti preliminari da parte dell’Amministrazione penitenziaria su due o tre episodi analoghi avvenuti in altri istituti.
Così si vive, e talvolta si muore, nelle 206 prigione italiane, che ospitano un terzo dei reclusi in più di quanti ce ne dovrebbero stare. I dati aggiornati al 31 ottobre riferiscono di 67.510 persone, a fronte di una capienza regolamentare pari a 45.572 posti. Nel 2011 i suicidi sono stati finora 58. Gli ultimi due sabato scorso, nel reparto osservazione di Poggioreale e all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Le morti (comunque arrivino) e le violenze rientrano nei cosiddetti «eventi critici» con cui vengono monitorate le condizioni generali in cui versano le carceri, che negli ultimi anni sembrano decisamente peggiorate. Non solo per i detenuti, ma anche per gli operatori che lavorano dietro le sbarre, a cominciare dagli agenti penitenziari. E la causa non è solo il sovraffollamento ormai cronico, al quale ogni tanto qualcuno fa cenno senza che si riesca ad applicare anche solo un tentativo di soluzione. In estate il presidente della Repubblica parlò espressamente di «realtà che ci umilia in Europa», ma a parte i radicali e qualche associazione che si batte per i diritti dei detenuti non si nota fra le forze politiche chi mostri di aver compreso la necessità di fronteggiare con urgenza una situazione sempre più al limite della dignità umana. Legata anche alla scarsezza delle risorse economiche a disposizione.
Nella seconda metà del 2010 in una ventina di istituti si sono verificate proteste legate alla qualità e alla quantità del cibo somministrato ai reclusi, e altrettanto è avvenuto nei primi quattro mesi del 2011 in una decina di penitenziari. Alcuni dei quali particolarmente sovraffollati. La questione del cibo è molto sentita tra gli «ospiti» delle patrie galere, che da sempre cercano di integrare le razioni fornite dall’amministrazione con il cosiddetto «sopravvitto», alimenti in più distribuiti a pagamento. Ma i soldi spesi per i piatti aggiuntivi sono legati alla «mercede» corrisposta per i lavori svolti in carcere dai detenuti, e i fondi di bilancio per questa voce sono stati drasticamente ridotti. Ne consegue che i detenuti non lavorano, non guadagnano, non spendono e sono costretti ad accontentarsi del menù contemplato dai tre pasti quotidiani assicurati dallo Stato.
Un tempo i carrelli del vitto tornavano dai giri tra le celle ancora carichi di cibi non consumati, al punto che alcuni istituti offrivano gli avanzi alle persone libere bisognose: ora capita che il contenuto dei carrelli risulti addirittura insufficiente. Le ditte appaltatrici che forniscono i pasti guadagnano poco o nulla dal vitto regolamentare, pagato 3,90 euro al giorno per ogni detenuto. Prima si rifacevano col sopravvitto, adesso i tagli abbattutisi su quella spesa hanno provocato conseguenze anche sulle ditte e le ricadute a catena finiscono per avere conseguenze sulla qualità del cibo.
Tutto ciò influisce sulle condizioni di vita dietro le sbarre, che rischiano di diventare insopportabili facendo salire ulteriormente il livello della tensione. L’allarme si rinnova di tanto in tanto, dopo qualche morte o «evento critico» che ottiene più risalto di altri, ma generalmente resta ignorato. È una delle sfide, forse la principale, che si trova a dover affrontare il neo-ministro della Giustizia, Paola Severino, che da avvocato penalista conosce bene la situazione dei detenuti italiani e di chi è chiamato a lavorare con loro.
Nel gennaio 2010 il Guardasigilli dell’epoca, Angelino Alfano, dichiarò lo stato d’emergenza per il sistema penitenziario italiano, destinato a durare fino al 31 dicembre. Si cercavano e studiavano soluzioni come davanti a una catastrofe naturale. Allora i detenuti erano 64.990, a fronte di 44.066 posti; a quasi due anni di distanza i posti sono aumentati di 1.506 unità, i detenuti di 2.520. Lo stato d’emergenza è finito, ma l’emergenza carceri continua.

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