“Mare al mattino” è il nuovo romanzo della Mazzantini che racconta i destini incrociati di due paesi.C’è chi cerca di arrivare sulle barche e chi vuole tornare, dopo l’esilio, proprio mentre Gheddafi sta cadendo
Margaret Mazzantini ha scritto un nuovo libro, bello, breve, si intitola Mare al mattino, esce per Einaudi.
“Mare al mattino” è il nuovo romanzo della Mazzantini che racconta i destini incrociati di due paesi.C’è chi cerca di arrivare sulle barche e chi vuole tornare, dopo l’esilio, proprio mentre Gheddafi sta cadendo
Margaret Mazzantini ha scritto un nuovo libro, bello, breve, si intitola Mare al mattino, esce per Einaudi.
Se non avessimo voglia di raccontare a un altro, agli altri, quello che proviamo e pensiamo, non avremmo bisogno della paroletta “come”, la più infantile e la più poetica. È grazie a lei che il racconto può rivaleggiare con la pittura. Il cielo di stelle come il mantello di un pascià. I dromedari come logore navi di pirati. Riccioli di vento come spiriti in viaggio che pizzicano la sabbia. Danzatrici del ventre come serpi assonnate. Farid si rotola come un bacherozzo nella polvere rossa. Tante volte il termine della similitudine è un animale, è pieno di animali il mondo dal quale si parte, se ne svuoterà via via. Una gazzella, soprattutto, l´amica di Farid, che non scappa e viene a mangiare dalla sua mano. Jamila è la ragazza madre, ha gli occhi orlati come gli uccelli. C´è la guerra, arriva fino alla loro oasi sahariana, il padre muore, Jamila e il piccolo Farid devono scappare, corrono via come topi. Adesso tutti urlano e cercano scampo, tutti hanno gli occhi degli animali. Umanità deportata come bestiame. Dalla sabbia affiorano i morti, come panni stecchiti stesi per terra. Nel mare, le labbra di Farid si rompono come il legno della barca. Fissano il mare come calamari intorno a una luce. Mentre muore, Farid sta pensando agli occhi della gazzella che si avvicinavano tanto ai suoi, alla bocca che mangiava dalla sua mano nel giardino dei pistacchi. Jamila è un insetto che si spegne. Il terrore era solo quello, morire prima del bambino. Guarda il portafortuna al collo del figlio, la sua gola che si è allungata come quella degli animali uccisi. Nessuno approderà da quella barca.
Questa era la storia di Jamila e Farid. È la metà della storia intera. L´altra le si svolge di fronte, come in uno specchio, nell´isola piccola sotto l´isola grande cui la barca sgangherata non arriva. Altri due madre e figlio, Angelina e Vito. Vito ha fatto una tesina sui tripolini, i cacciati (erano 20 mila) del 1970 dalla Libia di Gheddafi. Angelina era stata araba per undici anni. Vito ama quel mare, anche sua madre lo amava, diceva di esserne stata salvata, prima di rifiutarsi di nuotarci più. A volte galleggia sull´acqua, gli unici bagni che fa, una morta che guarda il cielo. Ora dall´altra parte del mare c´è la guerra. I nonni di Vito erano salpati alla volta di Tripoli, dietro l´idrovolante di Balbo. Durante la guerra mondiale furono rimpatriati, ma tornarono, il nonno diciassettenne, clandestino, sommerso di reti puzzolenti come un pesce morto. Poi fecero fortuna e figli, coltivarono chilometri di sabbia. Angelina nacque lì, nuotò col ragazzo Alì in quel mare, leggeri come pesci volanti. Fino a quel giorno del 1970. Gheddafi cacciò pure i morti. Angelina passava in prima media quando l´odio tornò. Capì che sarebbe stata lei, i suoi, quelli che avevano reso il deserto una fruttiera, a pagare le malefatte del colonialismo brutale dell´Italia di Giolitti e della quarta sponda fascista. Le violenze, gli sputi, le persone che fuggono senza meta, si attaccano ai muri come lucertole. L´immagine del dittatore con gli occhiali da sole, i capelli come ragni inchiostrati. Le amiche arabe di Angelina si graffiano la faccia per il dolore, Alì viene a farle la sua promessa. C´è qualcosa nel luogo dove si nasce, chi è strappato a forza lo sa.
In Italia sarà una tripolina. Campi profughi, stracci buttati indietro, gli occhi screditati di chi si è perso. Erano gli anni Settanta, distratti, a nessuno interessava la loro diaspora. Soli come scimmie bruciate dall´olio bollente. Angelina pensava ad Alì, al suo modo di nuotare, come un gabbiano che annega. A riportare la sua vita a quel punto. A unire due lembi di terra e di tempo, in mezzo il mare. Lei scoprirà altre ingiustizie, si sfrenerà nei cortei studenteschi, studierà la vera storia del colonialismo italiano, gli stupri, le fosse comuni nella sabbia, i filari di beduini impiccati, le migliaia di esecuzioni sommarie, i superstiti al confino alle Tremiti, a Ustica, a Ponza. Avrà da uno sposo provvisorio il figlio Vito, e vivrà per lui, con la nostalgia della cacciata. Porterà il bambino in vacanza, gli dirà di trovare un punto fisso e non lasciarlo mai con gli occhi, per non avere il mal di mare, come Jamila a Farid. Un giorno il veto cade, possono tornare in Libia, nonna madre e figlio. In aereo, guardando il mare del ritorno dal cielo, senza gli schizzi, l´angoscia, senza la paura di affogare. Angelina si muove a Tripoli come uno sminatore nel deserto, insegue il tempo mangiato come chi annusa una fuga di gas. Come se fosse stata morsa da dentro, da un animale nascosto che torna fuori. L´Alì di Angelina è ora un pezzo grosso dei Mukhabarat, i servizi segreti di Gheddafi, assassini e torturatori.
Le due storie, di Jamila e Farid, e di Angelina e Vito, non si incontrano, salvo che nell´amuleto di Farid, che Vito raccoglie dalla risacca sulla sua sponda, con altre reliquie, per dare una traccia ai nipoti futuri degli affogati. Le madri del Sahara mettono quei portafortuna al collo dei bambini per scacciare gli occhi cattivi della morte. Angelina gli strofina il naso contro come un animale.
Arriverà la notizia, è Vito a dargliela. Hanno ammazzato Gheddafi. Angelina non va a vedersi lo strazio su internet. Nessuna gioia, un macabro trofeo che sporca i vivi. La fine è in una breve riga: “Siamo liberi. Evviva evviva”.
Ho parafrasato il libro, il suo andamento di cronaca e gli scarti affettuosi delle sue similitudini. (Ci sono passi troppo gonfi, per me: “il suo cuore che si gonfia così tanto che deve tenerselo stretto con tutte e due le mani per non farlo cadere in terra, nella bacinella di ferro…”). Però Mazzantini è, a vederla da lontano, nervosa e spigolosa, e anche questo libro, che vuole correre verso la fine. Forse perché parla di persone che hanno paura e stanno scappando, o che hanno nostalgia e vogliono tornare. Quando lo scriveva, la fine non c´era. Le è caduta addosso, in ritardo, in tempo. La fine è una liberazione, ma non è lieta.
Nemmeno nella circostanza estrema dell´intervento della Nato che si è aggiunto alla ribellione contro Gheddafi la storia tormentosa dei rapporti fra Libia e Italia è riuscita a rivelarsi. Come per le foibe e la cacciata dei giuliano-dalmati dalla Jugoslavia, e i crimini dell´”italianizzazione” fascista che le aveva precedute, la convenienza, lo spirito fazioso, o il semplice desiderio di non sapere, hanno messo al bando quella storia, e le persone che l´avevano sofferta. Poco fa, voltato Gheddafi da socio in nemico, è successo di vederne qualche faccia nei telegiornali, di ascoltare con che animo avevano guardato il capo del governo italiano baciare la mano del dittatore. La stessa rimozione attorno alla vicenda colonialista italiana, alle sue infamie e ai suoi crimini. Si era visto tardi il filmaccio su Omar al-Muktar, i libri di Del Boca si erano guadagnati qualche attenzione, e poco più. Il libro di Mazzantini non fa una storia di tutto questo. Racconta le sue persone e i loro destini. Alla fine si è imparato molto su quella storia.
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