Così si riconverte Pomigliano

Sia Eugenio Scalfari che Gianni Riotta, nei loro editoriali di domenica scorsa su Repubblica e ilsole24ore, hanno messo giustamente in evidenza il rapporto tra la vicenda di Pomigliano e la globalizzazione, come già  aveva fatto Luciano Gallino pochi giorni prima.

Sia Eugenio Scalfari che Gianni Riotta, nei loro editoriali di domenica scorsa su Repubblica e ilsole24ore, hanno messo giustamente in evidenza il rapporto tra la vicenda di Pomigliano e la globalizzazione, come già  aveva fatto Luciano Gallino pochi giorni prima. L’apertura dei mercati mondiali, che è l’essenza della globalizzazione, porta inevitabilmente a un livellamento dei salari e della produttività del lavoro, intesa come intensità dello sfruttamento, o, se vogliamo, dell’erogazione della prestazione. Cioè verso un miglioramento nei paesi emergenti o restituiti, come l’Est europeo, allo “sviluppo”; e verso un peggioramento nei paesi già industrializzati e “affluenti”, tra cui l’Italia.
In queste comparazioni si leggono spesso cifre che meriterebbero una verifica: per esempio, è vero che dallo stabilimento Fiat di Pomigliano dipendono ben 10mila posti di lavoro nell’indotto locale? Ed è proprio vero che a Tychy, in Polonia, gli operai producono 10 auto per ognuna di quelle prodotte a Pomigliano? A parte la diversità dei modelli e della relativa complessità, dove sta la linea di demarcazione tra produzione di componenti e assemblaggio? È la stessa nei due stabilimenti o a Pomigliano ci sono più attività “internalizzate” che a Tychy? E i salari di Pomigliano, misurati sul costo della vita, quanto sono ancora superiori a quelli d Tychy?
Comunque sia, per partecipare «alla Coppa del mondo del lavoro» Riotta ritiene che Pomigliano deve dimostrare che può produrre di più e a costi minori che in Polonia. Chi non accetta il gioco, combatte modernità e sviluppo. Questo approccio, che relega il Mezzogiorno nell’area del sottosviluppo (Napoli come colonia produttiva, come lo sono Polonia, Turchia o Serbia) rispecchia la linea di Confindustria, che vede nel diktat di Marchionne un modello per tutta l’industria italiana. Ma, attenzione! L’Italia è ancora una (nonostante la Lega) e questa accondiscendenza alle leggi della globalizzazione rischia di travolgere non solo Napoli, ma anche Torino e Milano; e con esse Riotta.
Scalfari vede il problema e cerca un rimedio a un processo che gli pare irreversibile. Il rimedio è una politica redistributiva dello Stato che compensi con misure fiscali l’inevitabile erosione del potere di acquisto dei salari e con misure di welfare il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Se pensiamo alla cricca di Bertolaso, che ha divorato in meno di dieci anni 13 miliardi di euro, o ai costi della politica, che ne consumano molti di più, o ai bonus dei manager (che però “se li guadagnano”: i loro non sono forse redditi da lavoro?), o all’evasione fiscale e ai condoni, che hanno portato il carico fiscale di chi paga le tasse (cioè i lavoratori dipendenti e la gente onesta) ben oltre il 50 per cento del reddito, una compensazione del genere pare non solo possibile, ma doverosa. Ma quelle risorse (Marx le chiamava plusvalore) provengono sì dalla compressione dei redditi da lavoro (in termini di potere di acquisto i salari italiani sono ormai i più bassi dell’Europa a 15); ma proprio la necessità di comprimerli ulteriormente è destinata a prosciugare anche il surplus a cui attingere per una auspicabile quanto per ora improbabile politica di redistribuzione. In ogni caso estrarre dal o contenerne gli effetti livellatori non potrà mai tenere il passo con i ritmi della globalizzazione.
Ci sono altre alternative a questa due indicazioni? Non lo è certo il protezionismo, più volte proposto dalla Lega e da Tremonti (un commercialista osannato come “genio” da supporter e oppositori che predica il contrario di quello che fa e nasconde quello che fa con i giochi di parole: l’ultima trovata è chiamare “economia sociale di mercato” la sua marcia forzata verso liberismo e privatizzazioni). Comunque, chiudere o restringere i varchi alle importazioni, posto che l’Europa lo consenta – l’Italia non ha più l’autonomia per farlo – vuol dire restringere di altrettanto gli sbocchi delle nostre produzioni. Una politica che l’industria italiana non può permettersi.
Meno che mai c’è un’alternativa nella teoria proposta e riproposta da Stefano Cingolani sul Foglio, delle flying geese: le anatre che si alzano in volo una dietro l’altra, come i paesi emergenti che adottano prodotti e tecnologie abbandonati dai paesi industrializzati mano a mano che questi passano a produzioni a più alto valore aggiunto. Una “teoria dello sviluppo” in cui nessuno perde. Ma da tempo le cose non si svolgono più in modo così ordinato; ricerca e istruzione – peraltro da noi completamente abbandonate e sostituite dalla più stupida televisione del mondo – hanno ormai messo diversi paesi emergenti (Cina, India soprattutto) alla pari, se non più avanti dell’Italia, sia in campo scientifico che tecnologico, pur avendo mantenuto costi del lavoro e ambientali di gran lunga inferiori.
Ma ci sono altri “fattori competitivi” con cui contrastare gli effetti perversi della globalizzazione? A mio avviso – ma non è un parere personale; è solo la mia personale esposizione di un pensiero condiviso da milioni di persone che in vari modi lo praticano o cercano le strade per praticarlo – c’è un solo modo per contenere gli effetti perversi del livellamento indotto dalla globalizzazione, sia sui paesi oggi affluenti, sia su quelli emergenti, sia su quelli rimasti ai margini. Ma c’è un solo modo anche per contenere il divide tra ricchi e poveri, che passa sempre di più all’interno delle nazioni e sempre meno nel rapporto tra una nazione e l’altra.
La strada da imboccare è la progressiva e graduale “riterritorializzazione” dei mercati e delle produzioni. Un processo che non tocca l’informazione e i saperi (i bit), la cui circolazione sarà resa sempre più fluida dalla diffusione della rete, nonostante tutti gli ostacoli legali e proprietari imposti alla circolazione delle conoscenze; ma che renderà sempre più costosa la circolazione dei beni fisici e dei materiali (gli atomi): sia per il costo dei combustibili, destinato comunque a crescere verticalmente, sia per gli impatti delle loro emissioni. Ma è un processo che va assecondato e governato, per evitare che abbia conseguenze dirompenti sulle nostre vite.
La riterritorializzazione di mercati e produzioni coincide in gran parte con la conversione ambientale nei settori vitali del sistema economico. Questo obiettivo è ormai chiaro e largamente condiviso nel settore agroalimentare, dove molti sono ormai concordi nel denunciare i danni delle monoculture, dell’uso dei fertilizzanti e dei pesticidi chimici, dell’espropriazione dei coltivatori diretti (che Carlo Petrini insiste giustamente a chiamare «contadini», perché sono portatori di una vera cultura, non solo tradizionale ma anche innovativa e scientificamente aggiornata). Qui riterritorializzazione significa multifunzionalità delle aziende agricole, valorizzazione delle colture e delle specialità tradizionali, delle specie autoctone, delle produzioni biologiche, Km0: è l’unica strada per restituire la sovranità alimentare a tutti i paesi e a ogni comunità. Subito dopo viene la valorizzazione dei materiali di risulta (con il riciclo degli scarti) e dei prodotti già in uso (con la promozione della loro durata attraverso la cultura della manutenzione e del riuso). Il terzo ambito è quello della mobilità sostenibile, con servizi di trasporto condivisi, anche personalizzati, al posto della ormai insostenibile diffusione della motorizzazione privata. Poi viene la manutenzione del territorio e dell’edificato. Ma il primo posto spetta comunque all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, per sfruttare in modo decentrato, distribuito e autonomo le risorse locali di ogni territorio (ho cercato di presentare nel modo più semplice possibile le problematiche connesse alla riconversione di questi settori nel mio Prove di un mondo diverso, Nda Press, 2009).
Enunciate così, sono indicazioni astratte; ma ciascuna è suscettibile di infinite contestualizzazioni in grado di valorizzare le risorse tanto dei paesi affluenti che di quelli emergenti o emarginati. Ma si tratta, nel caso specifico del nostro paese e del contesto europeo, di indicazioni in grado di valorizzare anche i due principali “fattori competitivi” residui su cui possiamo ancora contare.
Il primo è la complessità sociale, l’estrema differenziazione dei ruoli, delle competenze, delle esperienze, dei saperi, che coincide con il processo di individualizzazione del corpo sociale protrattosi per tutto il corso dell’era moderna e che il conformismo e l’omologazione promossi dalla società di massa non sono ancora riusciti a cancellare. Una complessità che i paesi emergenti ancora non conoscono; o che spesso hanno distrutto per una troppo rapida accettazione degli stereotipi occidentali, ma che sicuramente non possono ricostruire in pochi anni.
Il secondo è la diffusione dei saperi presente all’interno del tessuto sociale, che non è più fatto da tempo di plebi ignoranti, ma nemmeno solo di competenze formali acquisite in ambiti scolastici, avulsi dai contesti sociali (si tratta, anche in questo caso, di un fattore a rischio, incalzato da quella «dittatura dell’ignoranza» che è l’epitome dello il Zeitgeist).
E perché sono “fattori competitivi”? Perché la transizione verso produzioni ambientalmente compatibili non solo è irrealizzabile senza una partecipazione consapevole delle comunità coinvolte; ma ha anche bisogno dei loro saperi. Sia di quella conoscenza del territorio e dei contesti sociali che solo chi vive in essi possiede; sia delle competenze che ciascuno ha sviluppato attraverso esperienze di studio, di lavoro o di vita che le strutture aziendali, stregate dai risparmi realizzati a spese del precariato, non sanno più valorizzare. Ma la transizione verso la compatibilità ambientale può mettere capo a modelli tecnico-organizzativi che possono essere esportati o comunque diffusi in tutto il mondo. Si pensi al valore di una rete locale di energia rinnovabile, distribuita e autosufficiente; a uno schema di mobilità fondato sul trasporto flessibile; ai vantaggi, anche economici, di un diffuso ricorso all’ecodesign; ai modelli di edilizia popolare ecocompatibile; a una filiera agroalimentare territorialmente circoscritta, capace di mettere a frutto tutte le conoscenze scientifiche disponibili (che non sono l’ingegneria genetica): eccetera.
Si tratta allora di creare, o riaprire, degli spazi pubblici dove questi saperi possano confluire, confrontarsi, integrarsi, pur nella irriducibile diversità di valori e interessi di cui sono espressione; e, alla fine, sintetizzarsi in una o più proposte di transizione a livello locale. Ha qualcosa a che fare tutto ciò con la vicenda di Pomigliano? No, se quella vicenda viene vissuta come una “emergenza”: un “prendere o lasciare” imposto all’ultimo momento. I processi di transizione e la conversione ambientale hanno bisogno di tempo per maturare; ma soprattutto di soggetti e di attori che la promuovano. Sì, però, se si affrontano i problemi per tempo; mano a mano che l’inevitabilità delle crisi aziendali e delle produzioni attuali comincia a prospettarsi. E questo è, tra gli altri, il caso tanto di Termini Imerese quanto di Pomigliano.

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