ANALISI «Libeccio d’Oltremare. Il vento delle rivoluzioni del Nord Africa si estende all’Occidente». Un libro collettivo
ANALISI «Libeccio d’Oltremare. Il vento delle rivoluzioni del Nord Africa si estende all’Occidente». Un libro collettivo
Le insurrezioni tunisina e egiziana hanno punti in comune con le rivolte e le mobilitazioni europee. In entrambi i casi, è emerso il rifiuto del saccheggio delle ricchezze e l’impoverimento imposti dal liberismo
La sera del 23 ottobre già era arrivata la pre-ordinata telefonata di Hillary Clinton ai governanti dell’auspicata transizione tunisina per complimentarsi con il grande trionfo. Benvenuti nello stadio della liberaldemocrazia: questo il messaggio diffuso dai media il giorno dopo le elezioni per l’assemblea costituente, partecipate – sostengono – dal 90% della popolazione. Poco contano i risultati reali, l’importante è fare della Tunisia un modello per i regimi del Nord Africa, come se la primavera araba non fosse altro che un cambio di stagione: si dismettono i vecchi abiti chiamati Ben Ali, Mubarak o Gheddafi, troppo ingombranti anche per chi li ha usati fino a ieri, e se ne indossano di nuovi, più leggeri. L’importante è garantire la continuità della governance imperiale. È chiaro, quindi, che qualche giorno dopo nessuno o quasi abbia dato notizia dei reali risultati di partecipazione alle elezioni: sui 7.569.824 potenziali elettori, solo 4.123.602 si sono registrati e appena 3.702.627 si sono effettivamente recati alle urne, ossia meno del 50% degli aventi diritto. Il sistema della rappresentanza nasce cioè nel segno della crisi.
Sguardi orientalisti
A qualche mese di distanza dalle sollevazioni in Tunisia ed Egitto, in presa diretta con la guerra in Libia, seguendo le traiettorie delle lotte verso la Siria e lo Yemen, il volume collettivo Libeccio d’Oltremare. Il vento delle rivoluzioni del Nord Africa si estende all’Occidente (Ediesse edizioni, pp. 288, euro 14) è un prezioso strumento per metterne a fuoco lo sfondo e fissare alcuni elementi che in esso risaltano. Nell’introduzione Ambra Pirri traccia con efficacia le coordinate al cui interno vanno letti i movimenti insurrezionali sull’altra sponda del Mediterraneo: le politiche neoliberali e la crisi economica globale. Merito del volume è infatti quello di spazzare via ogni immagine del supposto eccezionalismo arabo, volta – come spiega Miguel Mellino – a «indigenizzare» la rivolta. A confinarla, cioè, in un contesto primitivo, occultando il filo comune che la lega – per composizione sociale, tensioni soggettive, pratiche di conflitto – alle lotte in Europa e nel resto del mondo. Tutt’altro che ingenue, le etichette da subito appiccicate al movimento insurrezionale in Tunisia – dalla «rivoluzione dei gelsomini» alle similitudini con quella «arancione» – non rispondono solo alle esigenze di mediatizzazione dell’evento: costituiscono, spiega ancora Mellino, il tentativo di ridurlo nel tranquillizzante solco della transizione liberaldemocratica, ossia della compatibilità con la governance imperiale. L’appellativo di «rivolta per il pane», poi, cela il fatto che l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, qui come ovunque, è stato provocato dai processi globali di finanziarizzazione.
Così, oggi diventano rais da scaricare quelli che fino a ieri erano imprescindibili alleati, ad esempio nel regime di controllo dei confini, sulla cui strategica importanza si soffermano Alessandra Sciurba e Sandro Mezzadra nei rispettivi saggi. Tale regime è continuamente sfidato dai movimenti dei migranti, il cui esercizio della fuga si combina virtuosamente con le condizioni di possibilità per la lotta. Il «collettivo dei tunisini di Lampedusa a Parigi», recente protagonista di varie occupazioni nella capitale francese e giustamente citato come un’eccezionale esemplificazione delle pratiche di libertà, è composto dai «figli della rivoluzione» e dalle sperimentazioni di organizzazione transnazionale costruite dai movimenti di studenti e precari delle due sponde del Mediterraneo.
Impoveriti e disillusi
Proprio dall’interno di queste esperienze nasce il contributo di inchiesta militante di Anna Curcio – d’altronde, solo dentro i processi di organizzazione si produce inchiesta militante. Il suo saggio illustra la composizione del movimento insurrezionale, percorre attraverso la voce dei giovani che vi hanno preso parte il rapporto tra le banlieue e il centro di Tunisi, individua il nodo della partita politica: il tendenziale sovrapporsi e la latente frizione tra un ceto medio declassato e un proletariato derubato del futuro, accomunati da precarietà, disoccupazione e impoverimento, cioè dalla fine dell’illusione nelle promesse di progresso e riscatto sociale del capitalismo globale – indipendentemente che questo assuma il volto autoritario di Ben Ali o la maschera feroce del Fondo Monetario Internazionale.
Del resto, lungi dal costituire un evento disincarnato o inaspettato, l’insurrezione in Tunisia viene da lontano, come sostiene il migrante e militante tunisino Khaled Garbi Ben Ammar nell’intervista a Curcio e ribadisce Annamaria Rivera nel suo saggio: è un filo rosso che si dipana dalle rivolte del 1978 e 1984, fino agli scioperi del bacino minerario di Gafsa nel 2008. Qui dentro si è affermata una nuova composizione del lavoro vivo, si sono sedimentati processi di soggettivazione e organizzazione, ora resi potenti dall’uso della rete (si veda il contributo di Giuliana Serra). In questo processo risalta lo straordinario protagonismo femminile, oggetto del saggio di Renata Pepicelli. Esso ci parla di una pratica di liberazione e non di una semplice richiesta di emancipazione, ossia di occupare i posti del potere maschile di classe: su questa differenza, decisiva, il volume richiederebbe un supplemento di riflessione. E, si badi, non si tratta tanto di religione, quanto innanzitutto dei rapporti sociali complessivi. Ce l’ha spiegato una migrante tunisina ora a Bologna: «Fino a qualche anno il fazzoletto che porto in testa – ci diceva indicando il suo velo – non era visto come un problema. Lo è diventato dal 2007, quando è cominciata la crisi».
La normalizzazione che viene
Lo scontro di civiltà è, in realtà, scontro di classe. Del resto, a differenza di quello che pensano la sinistra spaventata dall’islamizzazione da un lato e il multiculturalismo relativista dall’altro, prima ancora di essere religioso o laico, il problema è che Ennhada – primo partito alle elezioni per la costituente – costituisce una forza di normalizzazione, come fu la Democrazia Cristiana.
Insomma, il vento delle rivoluzioni che viene dal Nord Africa non è la tiepida primavera finalmente raggiunta da chi stava fuori o ai margini della Storia: ci parla, al contrario, di un processo comune. Sono le lotte e le pratiche costituenti a unificare le due sponde del Mediterraneo e a togliere il mare di mezzo al desiderio di trasformazione. Solo respirando l’aria del comune possiamo prendere sul serio la suggestione di Pirri di «capovolgere il mondo per ridisegnarlo». E non solo sulle carte geografiche.
Sguardi orientalisti
A qualche mese di distanza dalle sollevazioni in Tunisia ed Egitto, in presa diretta con la guerra in Libia, seguendo le traiettorie delle lotte verso la Siria e lo Yemen, il volume collettivo Libeccio d’Oltremare. Il vento delle rivoluzioni del Nord Africa si estende all’Occidente (Ediesse edizioni, pp. 288, euro 14) è un prezioso strumento per metterne a fuoco lo sfondo e fissare alcuni elementi che in esso risaltano. Nell’introduzione Ambra Pirri traccia con efficacia le coordinate al cui interno vanno letti i movimenti insurrezionali sull’altra sponda del Mediterraneo: le politiche neoliberali e la crisi economica globale. Merito del volume è infatti quello di spazzare via ogni immagine del supposto eccezionalismo arabo, volta – come spiega Miguel Mellino – a «indigenizzare» la rivolta. A confinarla, cioè, in un contesto primitivo, occultando il filo comune che la lega – per composizione sociale, tensioni soggettive, pratiche di conflitto – alle lotte in Europa e nel resto del mondo. Tutt’altro che ingenue, le etichette da subito appiccicate al movimento insurrezionale in Tunisia – dalla «rivoluzione dei gelsomini» alle similitudini con quella «arancione» – non rispondono solo alle esigenze di mediatizzazione dell’evento: costituiscono, spiega ancora Mellino, il tentativo di ridurlo nel tranquillizzante solco della transizione liberaldemocratica, ossia della compatibilità con la governance imperiale. L’appellativo di «rivolta per il pane», poi, cela il fatto che l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, qui come ovunque, è stato provocato dai processi globali di finanziarizzazione.
Così, oggi diventano rais da scaricare quelli che fino a ieri erano imprescindibili alleati, ad esempio nel regime di controllo dei confini, sulla cui strategica importanza si soffermano Alessandra Sciurba e Sandro Mezzadra nei rispettivi saggi. Tale regime è continuamente sfidato dai movimenti dei migranti, il cui esercizio della fuga si combina virtuosamente con le condizioni di possibilità per la lotta. Il «collettivo dei tunisini di Lampedusa a Parigi», recente protagonista di varie occupazioni nella capitale francese e giustamente citato come un’eccezionale esemplificazione delle pratiche di libertà, è composto dai «figli della rivoluzione» e dalle sperimentazioni di organizzazione transnazionale costruite dai movimenti di studenti e precari delle due sponde del Mediterraneo.
Impoveriti e disillusi
Proprio dall’interno di queste esperienze nasce il contributo di inchiesta militante di Anna Curcio – d’altronde, solo dentro i processi di organizzazione si produce inchiesta militante. Il suo saggio illustra la composizione del movimento insurrezionale, percorre attraverso la voce dei giovani che vi hanno preso parte il rapporto tra le banlieue e il centro di Tunisi, individua il nodo della partita politica: il tendenziale sovrapporsi e la latente frizione tra un ceto medio declassato e un proletariato derubato del futuro, accomunati da precarietà, disoccupazione e impoverimento, cioè dalla fine dell’illusione nelle promesse di progresso e riscatto sociale del capitalismo globale – indipendentemente che questo assuma il volto autoritario di Ben Ali o la maschera feroce del Fondo Monetario Internazionale.
Del resto, lungi dal costituire un evento disincarnato o inaspettato, l’insurrezione in Tunisia viene da lontano, come sostiene il migrante e militante tunisino Khaled Garbi Ben Ammar nell’intervista a Curcio e ribadisce Annamaria Rivera nel suo saggio: è un filo rosso che si dipana dalle rivolte del 1978 e 1984, fino agli scioperi del bacino minerario di Gafsa nel 2008. Qui dentro si è affermata una nuova composizione del lavoro vivo, si sono sedimentati processi di soggettivazione e organizzazione, ora resi potenti dall’uso della rete (si veda il contributo di Giuliana Serra). In questo processo risalta lo straordinario protagonismo femminile, oggetto del saggio di Renata Pepicelli. Esso ci parla di una pratica di liberazione e non di una semplice richiesta di emancipazione, ossia di occupare i posti del potere maschile di classe: su questa differenza, decisiva, il volume richiederebbe un supplemento di riflessione. E, si badi, non si tratta tanto di religione, quanto innanzitutto dei rapporti sociali complessivi. Ce l’ha spiegato una migrante tunisina ora a Bologna: «Fino a qualche anno il fazzoletto che porto in testa – ci diceva indicando il suo velo – non era visto come un problema. Lo è diventato dal 2007, quando è cominciata la crisi».
La normalizzazione che viene
Lo scontro di civiltà è, in realtà, scontro di classe. Del resto, a differenza di quello che pensano la sinistra spaventata dall’islamizzazione da un lato e il multiculturalismo relativista dall’altro, prima ancora di essere religioso o laico, il problema è che Ennhada – primo partito alle elezioni per la costituente – costituisce una forza di normalizzazione, come fu la Democrazia Cristiana.
Insomma, il vento delle rivoluzioni che viene dal Nord Africa non è la tiepida primavera finalmente raggiunta da chi stava fuori o ai margini della Storia: ci parla, al contrario, di un processo comune. Sono le lotte e le pratiche costituenti a unificare le due sponde del Mediterraneo e a togliere il mare di mezzo al desiderio di trasformazione. Solo respirando l’aria del comune possiamo prendere sul serio la suggestione di Pirri di «capovolgere il mondo per ridisegnarlo». E non solo sulle carte geografiche.
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