La folla davanti a Montecitorio nella giornata di ieri è il riflesso di una enorme sconfitta e di un’altrettanto enorme mistificazione. Ci piaccia o meno, e al netto delle opinioni di ciascuno, esce di scena un presidente eletto ed entra in scena un governo eletto da nessuno. L’intero processo è avvenuto non tanto in un contesto di sospetto ma accompagnato da un plebiscito popolare. E mentre i poteri forti si passano il testimone, i più umiliati sono gli stessi che applaudono. Ieri abbiamo assistito all’esautorazione della sovranità popolare dalla vita politica italiana, e vi abbiamo assistito sotto ai nostri nasi in festa.
La folla davanti a Montecitorio nella giornata di ieri è il riflesso di una enorme sconfitta e di un’altrettanto enorme mistificazione. Ci piaccia o meno, e al netto delle opinioni di ciascuno, esce di scena un presidente eletto ed entra in scena un governo eletto da nessuno. L’intero processo è avvenuto non tanto in un contesto di sospetto ma accompagnato da un plebiscito popolare. E mentre i poteri forti si passano il testimone, i più umiliati sono gli stessi che applaudono. Ieri abbiamo assistito all’esautorazione della sovranità popolare dalla vita politica italiana, e vi abbiamo assistito sotto ai nostri nasi in festa.
La serata di ieri è problematica per tutte queste ragioni e un’altra: perché testimonia l’ingenuità di una buona parte della popolazione. Non parlo di chi giustamente dopo anni di lotte ha deciso di festeggiare almeno l’addio di un uomo che grazie al cielo non dovremo fischiare mai più, parlo di chi si è presentato davanti a Montecitorio con il cartello “finalmente” a testimoniare la speranza che la crisi italiana sia stata generata da Berlusconi e con lui se ne vada. Non è così. Anzi, quest’ingenuità, per nulla casuale dopo un ventennio di distruzione dell’istruzione della cultura e di rimbecillimento collettivo indotto, è un problema da tenere bene a mente perché adesso non è più tempo di ingenuità nè di false speranze.
In queste settimane ci è stato ripetuto continuamente che Berlusconi è la causa della crisi. E’ falso. Certo il vecchio governo ha accelerato il declino italiano, ma non l’ha creato, nè sarà la sua uscita dalle scene a risolverlo. L’hanno ripetuto infinite volte tutti, da Marazzi a Bellofiore a Halevi a Fumagalli a Krugman, tra i pochi economisti che vale la pena leggere: questa è una crisi sistemica irreversibile, e nessun governo tecnico di destra sinistra o centro potrà arginarla a meno che non decida anzitutto di opporre precisamente gli stessi principi sostenuti ad esempio dall’attuale governo Monti, principi ben distanti dal bene comune e dal cuore di tutti noi.
Ci sono diverse cose che non ci hanno detto su questa crisi e vorrei riprendere alcune questioni importanti. La prima da riprendere è la ragione per cui non si consente alla Grecia di dichiararsi insolvente – dico insolvente perché è ora di cominciare a dipanare l’alone di mistero oscuro che circonda il concetto di default, in quanto dichiararsi insolventi di fronte a debiti eteroprodotti è, di tutti i mali possibili, voglia o no, certamente il minore, e dunque il default e l’uscita dall’euro sono l’unica strada percorribile, anzi da percorrere al più presto, per il futuro italiano.
La ragione principale per cui Europa e Stati Uniti vogliono evitare il default greco non coincide tanto con le eventuali perdite derivanti dal fallimento dei titoli greci, il problema sono le assicurazioni sui titoli greci. Il Credit Default Swap è una leva di seconda potenza che funziona da polizza assicurativa pensata per assicurare dall’evento insolvenza titoli che già si hanno in portafoglio. Quando nel 1999 l’abolizione del Glass-Steagall Act incoraggia le banche a emettere prestiti senza che il beneficiario garantisca la capacità di ripagare il debito, alla luce della possibilità di elargire credito in funzione della valutazione del rischio, si formalizza la distribuzione sul mercato di prodotti cartolarizzati, che attraverso un processo definito “originate and distribute” consentono di trasformare voci passive in titoli rappresentativi di debito (Collaterized Debt Obligations, CDOs) assicurati da Credit Default Swaps (CDS), strumenti derivati del CDO e dunque leve di seconda potenza che assicurano il CDO sul CDS. Così, mentre la cartolarizzazione di parte del debito greco veniva utilizzata per portare fuori dal bilancio le voci passive e allinearsi al mandato dell’Unione Europea, AIG vendeva Swaps per assicurare gli investitori in caso di crollo greco. Che succede, succede che poiché il prezzo della polizza sale e scende in base al rischio del fallimento, il CDS è diventato uno strumento di scommessa sul rialzo o sul ribasso, non a caso la senatrice McCaskill nel processo di SEC contro Goldman Sachs ha definito CDOs e CDS come “pure and simple raw gambling”, e i Synthetic CDOs come pacchetti derivati detti sintetici esattamente perchè “dietro non c’è niente, solo la scommessa”. Ora, nell’eventualità di un default greco, e alla luce dell’estrema opacità del mercato di CDS, verrebbe a replicarsi una situazione affine a quella che ha seguito il crollo di Lehman Brothers, quando la Federal Reserve è intervenuta in soccorso di AIG, in quanto il fallimento del gruppo assicurativo avrebbe causato una reazione a catena su migliaia di gruppi bancari e soggetti economici, ovvero di tutti quei gruppi bancari e soggetti economici che avevano fatto ricorso a prodotti assicurativi capaci di produrre, in un mercato finanziario completamente folle, un “portafoglio virtualmente privo di rischi”, per utilizzare non a caso le parole del Nobel per l’economia Robert C. Merton.
Oggi si rischia precisamente lo stesso scenario, in quanto il default greco espone migliaia di banche agli stessi rischi di “apocalisse finanziaria” -come l’aveva definita il Sole 24 Ore – cui avrebbe portato il fallimento di portato AIG ai tempi di Lehman Brothers. E’ così che l’ipotesi di un referendum greco ha fatto rabbrividire la Banca Centrale Europea, perché il default greco avrebbe un effetto detonatore esterno, ovvero ricadrebbe non tanto in Grecia ma in Europa e oltreoceano. Ecco che mentre l’Europa scansa il pericolo referendum, la Grecia continua a fungere da camera di compensazione rispetto a perdite altrui, trasformandosi in una conca di ricchezza da succhiare sino a divenire capro espiatorio una crisi eteroprodotta e eterodiretta. La stessa traiettoria sta seguendo ora l’Italia, non a caso a capo dei due governi ci sono ora due banchieri nessuno dei quali è stato eletto.
Vi sono ragioni strutturali ai piedi di questo processo e non si possono ignorare. Il problema di fondo è che strutturalmente, l’economia mondiale è satura. Satura significa che il mercato occidentale soffre una crisi strutturale di sovrapproduzione, e non può crescere più. Per essere precisi, dovremmo dire non solo che non può crescere più, ma che non deve crescere più, perché non ce n’è bisogno, perché le risorse naturali e le persone sono ai limiti dell’esaurimento, e perché l’unica ragione per continuare a crescere è il rifiuto miope e opportunistico di rinunciare a quote di mercato da parte dei grandi monopolisti materiali e immateriali del commercio mondiale. Ci hanno detto che la saturazione del mercato è una brutta notizia: è falso, è una notizia splendida. Significa semplicemente che l’umanità ha trovato il modo di provvedere a tutto ciò di cui abbisogna ai fini della sopravvivenza. A rigor di logica la sovrapproduzione non è una crisi, è una festa. Diventa una crisi solamente in un sistema competitivo. Se non vivessimo in un sistema competitivo, la saturazione equivarrebbe a ciò che anni fa definivano la fine del lavoro, perché finalmente l’umanità ha liberato tempo dalla produzione di sopravvivenza e può dedicarsi alla cura di una terra troppo a lungo sfruttata, alla redistribuzione della ricchezza, al rallentamento dei ritmi produttivi e alla riconversione del mercato, tutte cose oggi a noi invisibili perché l’esubero è offuscato da una diseguaglianza distributiva senza precedenti storici. In un contesto di competizione, pertanto, tutto questo è chiaramente precluso, perché saturazione e sovrapproduzione significano la necessità di produrre di più a meno, e dunque la necessità di tagliare posti di lavoro, precarizzare, delocalizzare, e possibilmente emancipare la produzione di profitto dal processo produttivo, in quanto il processo produttivo è divenuto, esattamente per queste ragioni, estremamente oneroso. La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia reale nasce precisamente qui, in un processo che, ci ricorda Marazzi e non possiamo dimenticarcelo, è consustanziale all’economia industriale, in questo senso è sistemico e rappresenta il tentativo di emancipare il profitto industriale dalla stagnazione in un processo che giustamente Vercellone definisce come il tentativo di trasformare il profitto in rendita. Che succede, che mentre l’emancipazione del profitto dal processo produttivo ha portato al disinvestimento fisico per milioni di aziende, in molti casi le “too big to fail” hanno vissuto un grandissimo exploit di ricchezza, gli assets combinati delle sei più grandi banche statunitensi sono cresciuti dal 17% del PIL statunitense nel 1995 al 63% nel 2010, e le detentrici del monopolio del lavoro hanno potuto licenziare, cassaintegrare, delocalizzare, precarizzare e ricattare forti del fatto che chi ha il monopolio del lavoro in un’epoca di deindustrializzazione può chiedere qualunque cosa. In un contesto competitivo caratterizzato dalla saturazione, pertanto, il bisogno compulsivo di continuare a moltiplicare i pani e i pesci è arrivato oggi a moltiplicare esaurimento e debito, e a trasformare la situazione di esubero in una situazione manufatta di scarsità, al punto che la riproduzione di questo sistema produttivo in un momento storico di assoluta eccedenza può avvenire solamente al costo della produzione di disoccupazione e fame. Volendo citare Nathan Rothschild, bisognerebbe dire che i migliori affari in borsa si fanno quando scorre il sangue, ma le citazioni in questo caso si sprecano e sono sempre lucidamente oggettive.
Anche qualora non sapessimo da chi è costituito, pertanto, è chiaro che un governo tecnico non può intervenire in una situazione del genere che è squisitamente politica. Non c’è nessuna soluzione tecnica, l’unica via d’uscita è una riflessione che si diparta dalla necessità di rallentare e riconvertire completamente la produzione mondiale nelle direzioni giustissime che ripete da mesi Guido Viale. In questo contesto, i concetti di austerità e crescita rappresentano esclusivamente un progetto antropologicamente sociopatico, perchè tale è la logica che sta lacerando la Grecia e tale è la logica di cure economiche che scaricano sugli esseri umani le problematiche dell’economia: va preservata la vita umana non l’austerità, la crescita, o il monopolio dell’istruzione, dell’acqua, dell’energia del lavoro. Tra tutte queste cose negative però ce n’è una di positiva, perché ora il re è nudo e le priorità a questo punto sono chiare: che se ne vadano tutti, non solo Berlusconi.
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