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Il passato e l’Unione di oggi

A luglio, quando è precipitata la crisi greca, ho chiesto ad alcuni padri dell’Unione Europea se e quale era stato l’errore nell’impianto ormai scricchiolante della Ue. Con Sbilanciamoci e Opendemocracy è iniziata una discussione che si è presto spostata dal “perché” si è arrivati a questo punto al “che cosa fare perché la situazione non si aggravi”. Ad essa hanno portato contributi preziosi molti economisti e sociologi, e sarà  pubblicata interamente come ebook.

A luglio, quando è precipitata la crisi greca, ho chiesto ad alcuni padri dell’Unione Europea se e quale era stato l’errore nell’impianto ormai scricchiolante della Ue. Con Sbilanciamoci e Opendemocracy è iniziata una discussione che si è presto spostata dal “perché” si è arrivati a questo punto al “che cosa fare perché la situazione non si aggravi”. Ad essa hanno portato contributi preziosi molti economisti e sociologi, e sarà  pubblicata interamente come ebook. In essa si sono confrontate alcune voci, peraltro interessanti, che hanno proposto l’uscita dall’euro dei paesi in maggiore difficoltà, primo la Grecia, mentre la maggioranza ha ragionato su come mantenere l’euro e la Ue dandole un nuovo indirizzo. Condivido queste ipotesi correttive, esposte da Mario Pianta sul manifesto del 6 novembre. Ma quali forze politiche le porteranno avanti?
L’Europa è nata male. Una federazione europea, che era stata un ideale antifascista di pochi, sarebbe diventata più forte con la vittoria sul nazismo e sul fascismo: l’orrore del secondo conflitto mondiale avrebbe finalmente indotto il bellicoso continente ad andare a una pace perpetua dotandosi d’una qualche struttura federale. E pareva ovvio che un’avanzata democrazia sociale ne sarebbe stata la natura e il fine.
L’Europa era stata non solo la madre del pensiero politico moderno, che si sarebbe diffuso in Occidente, ma l’unico continente che ne aveva portato a fondo il nodo, lasciato irrisolto dal 1789, fra eguaglianza e libertà, sciogliendolo nella necessità di ravvicinare le condizioni di vita dei cittadini perché potessero effettivamente esercitare i diritti di libertà loro promessi. Era la questione sociale, divenuta dirompente fra il XIX e il XX secolo. Essa aveva prodotto un forte movimento operaio fondato sulla necessità di un modo di produzione diverso dal capitalismo, basato sull’abolizione della proprietà privata dei mezzi per produrre (terra e capitali); su questo, in seguito ai grandi moti del 1848, si sarebbero delineate a fune secolo le correnti socialiste, la I e la II internazionale e nel 1917 si produceva in Russia la rivoluzione comunista della III internazionale, dando luogo alla Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Che il nodo fosse sociale riconosceva anche negli Usa il presidente Roosevelt, reagendo alla crisi del 1929 con un forte intervento pubblico, correttivo, il New Deal. E lo confermava la violenta reazione delle altre potenze europee, sviluppatesi nel liberismo, non solo con il tentativo di bloccare la giovane rivoluzione sovietica ma lasciandosi andare, prima con il fascismo in Italia, poi con il nazismo in Germania, e negli anni Trenta anche in Grecia e in Spagna, a forme estreme di reazione di destra, incontrollate fino alla tesi della sottoumanità delle “razze” ebraica e zingara e al loro sterminio. Ci sarebbe voluta la seconda guerra mondiale perché l’alleanza fra l’Urss e l’occidente democratico, Stati Uniti inclusi, ne avesse ragione, distruggendo il III Reich.
Già qualche anno prima, nel 1938, il liberale John Maynard Keynes rifletteva, similmente a Roosevelt, sulle catastrofi derivanti da un sistema totalmente affidato al mercato, e opponeva sia all’Ottobre sovietico sia alla reazione fascista e nazista un compromesso fra capitale e lavoro che, riconoscendo il conflitto di interessi fra le due parti, si proponeva di stabilire un qualche equilibrio di forze in un rapporto contrattato e garantito dallo stato. E infatti dopo la seconda guerra mondiale fu il keynesismo a dare la sua impronta alle costituzioni o alle politiche di ricostruzione europee, con l’allargamento dei diritti sindacali e un ruolo crescente delle istituzioni di welfare.
Si poteva pensare che la caratteristica di una Europa riunita sarebbe stata una avanzata democrazia sociale. Ma questa ipotesi non godeva delle grazie né degli gli Stati Uniti dopo la morte di Roosevelt, né del campo socialista dell’est, che temeva l’indebolimento dei partiti comunisti, e aveva le sue ragioni di diffidare dalle socialdemocrazie che, in linea di principio, avrebbero dovuto esserne le promotrici. L’aspetto militare assunto dallo scontro fra i due blocchi ha offuscato l’aspro scontro sociale che avveniva nell’Europa occidentale fra i governi e le sinistre del movimento operaio e comunista. I primi abbozzi di un coordinamento europeo, la Comunità del carbone e dell’acciaio e i tentativi militari della Comunità europea di difesa e poi della Ueo, portavano il segno dell’egemonia di destra. Il timore d’una terza guerra mondiale, per di più atomica, divenne centrale nei rapporti est-ovest.
Ma un cortocircuito saldava negli anni sessanta il movimento americano per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam con la, apparente o reale, “nuova frontiera” dei Kennedy, e al sisma indotto nella chiesa cattolica dal Concilio Vaticano II si affiancava una ripresa radicalizzata delle lotte operaie. Erano crepe che si aprivano su terreni divisi con lo stesso segno: il 1968, con la eco delle grandi università europee e l’espandersi per le strade di masse giovanili acculturate e sicure di sé, sarebbero state la nuova colata lavica che, simile al 1848, erompeva dal grembo della inquieta Europa.
Nuova, travolgente, e per ora ultima. Le forze conservatrici ne avvertono il pericolo più che le sinistre la intendano e ne colgano le possibilità. A dividerle dal ’68 era la sua natura libertaria; è tanto se, come in Italia, non lo attaccano. Sospetta ai partiti comunisti e ai sindacati, la fiammata del 1968, accesa in tutte le capitali ma prolungatasi nel decennio successivo soltanto in Italia, mette in allarme la conservazione. Negli anni ’70 parte la controffensiva della Trilaterale (1973), si forma la maggioranza ultradestra di Ronald Reagan negli Usa, i Chicago Boys di Milton Friedman imperversano su tutti i paesi dell’America Latina, in Gran Bretagna vince Margaret Thatcher e ne segue il New Labour di Tony Blair. Ed è ormai visibile il disgregarsi prima dell’egemonia poi della stessa Unione Sovietica, sancita dalla caduta del Muro di Berlino e la disfatta ingloriosa dei residui partiti comunisti in Europa. La Cina di Mao ha già cambiato il suo orizzonte e Cuba passa da una crisi all’altra.
L’implosione del campo dell’est nel 1989 mette un brusco arresto a quel che restava – e non era poco – delle conquiste sociali europee, che erano andate crescendo negli anni sessanta. Nell’agonia e morte del comunismo, erano le ipotesi keynesiane il nemico che restava da sconfiggere. Per “lacci e lacciuoli”, dai quali l’ardore dei capitali esigeva di essere sciolto, si intendeva qualsiasi regolamentazione da parte dello stato, mentre la spesa pubblica era denunciata come causa del debito pubblico. Non solo le sinistre storiche, sotto botta per lo scacco dell’Urss, si arrendevano al liberismo, ma gran parte dell’estrema sinistra era sedotta dallo slogan “meno stato, più mercato”. Insomma il vessillo di von Hayek sventolava di nuovo sul nostro continente.
All’inizio degli anni novanta, questa è la Stimmung dominante dell’Europa che costruisce la sua Unione, rilancia il mercato unico e progetta l’euro. Alla base politica dell’unità europea non restava che una sbiadita identità antifascista con tinte nazionaliste: la povera discussione sulle “radici” europee (greco-romane o franco-germaniche, cristiane o ebraiche) fu la prova del declino di ambizione sulla fisionomia futura del continente.
Nella confusa fine del Novecento e nella persuasione che un’unità continentale sarebbe stata più rapida se si fosse evitato di sbrogliarne i nodi, si procedeva quindi a una unificazione della moneta fra paesi di differente struttura economica e politica, di diversa composizione sociale, legislazione e cultura. Il Patto di stabilità e crescita, che ne stringeva le regole, avrebbe costretto, con l’oggettività delle leggi economiche, a omologare lentamente le strutture e le istituzioni dei singoli paesi, senza forzarli a cedere di colpo le loro sovranità. L’Europa nasceva dunque soltanto come moneta comune, con le conseguenti politiche monetarie consegnate alla leadership della Banca centrale. Che fin dall’inizio ebbe come unico scopo contenere l’inflazione, rinunciando a ogni possibilità di alimentare lo sviluppo. A questo avrebbe provveduto la mano invisibile e la logica del mercato.
L’integrazione europea, nata con i sei paesi della Comunità, si sarebbe progressivamente allargata fino ai 27 dell’Unione attuale, indebolendosi piuttosto che rafforzandosi per le difficoltà dei paesi della periferia. Era rappresentata da un parlamento senza poteri, quelli effettivi appartenendo alla Commissione e quelli ufficiali al Consiglio europeo e a un suo presidente. Non si trattava di una federazione, perché i singoli stati, a cominciare dai fondatori, non erano disposti a trasferire alla Comunità le loro facoltà, salvo quella di battere moneta.
Tale era ed è rimasta l’Unione Europea. La supposizione che la moneta avrebbe trainato di per sé una armonizzazione delle politiche economiche e fiscali non si è verificata. Si auspicava anche che la Ue “parlasse con una sola voce sulla scena internazionale”, ma neanche questo è avvenuto. Ogni stato manteneva le sue prerogative e le sue leggi salvo alcuni pochi punti di principio, di cui si va molto orgogliosi, come l’interdizione della pena di morte. Un qualche coordinamento si dava, specie dopo l’11 settembre, fra le polizie su pressione degli Stati Uniti. È stata installata una Corte di Giustizia alquanto conservatrice. I ministri delle Finanze si incontrano periodicamente nell’Ecofin.
I diversi paesi sono rimasti dunque, in sostanza, allo stato di partenza, ognuno crescendo o calando da solo, con in più la strettoia di una moneta unica che impedisce di aggiustare i conti attraverso le svalutazioni. Crescere è diventato più difficile e ad ogni stretta di crisi risorgono velleità nazionaliste, e fin xenofobe, oggi infatti assai diffuse. L’allargamento all’ex blocco dell’est, Russia esclusa, introducendo nazioni di scarsa solidità economica e scombussolate dal capovolgimento di un sistema politico e sociale, ha complicato il quadro, e costretto la Ue a un doppio regime: tutti ne fanno parte, ma alcuni fuori dall’euro, per ragioni opposte: la Gran Bretagna per non rinunciare alla sterlina, l’est europeo per non essere ancora in grado di stare al suo livello. La Germania avrebbe sperimentato sulla sua pelle le difficoltà di rimettere assieme un paese attraverso il quale era passata la frontiera fra est e ovest, riunendo due tessuti economici di forza affatto differente e due generazioni postbelliche formate su direzioni opposte.
Quest’articolo (diviso in due parti, la prima sul passato, la seconda sul futuro dell’Europa che pubblicheremo martedì), conclude il dibattito sulla Rotta d’Europa aperto da un articolo di Rossana Rossanda. Tutti gli interventi si possono leggere su www.ilmanifesto.it e www.sbilanciamoci.info

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