Io e Zoran, sopravissuti a Dachau, con il terrore che possa ripetersi

L’incontro col Male di Pahor e MuÅ¡ic, i due grandi italo-sloveni

L’incontro col Male di Pahor e MuÅ¡ic, i due grandi italo-sloveni

 Siamo ambedue nativi del medesimo territorio, lui dalla parte goriziana, io da quella triestina, che dopo la Prima guerra mondiale divenne la Venezia Giulia. Sloveni, nati con quattro anni di distacco come cittadini austro-ungarici, una double nationalité spiegò Zoran ai francesi che non fanno differenza tra cittadinanza e nazionalità.
In ogni modo, iniziata la guerra nel 1915, l’intelligente famiglia Mušic previde la bolgia in cui si sarebbe ridotta la regione e divenne esule. Né vi si ristabilì nel dopoguerra, poiché il periodo oscuro che con il fascismo annientò con le leggi e col terrore tutta la fiorente cultura e vita sociale slovena durò fino all’inizio del secondo conflitto. L’esordio del male lo si ebbe a Trieste, dove già nel 1920 fu data alle fiamme nel centro della città la Casa della Cultura slovena. Ed è proprio in quei paraggi che con Zoran ci incontrammo negli anni postbellici, quando le due tradizionali culture della città facevano i primi approcci a quella che è oggi un’amichevole e ricca cooperazione.
L’incontro fu nella Galleria Scorpione, di fronte alla chiesa serba sulla sponda del Canale. Una piccola galleria ma importante anche per gli incontri di artisti della Jugoslavia e soprattutto della Slovenia. Zoran si trattenne specialmente con i due pittori sloveni di Trieste, August Cernigoj e Lojze Spacal, che si erano già fatti notare; io facevo parte del gruppo letterario con i poeti Cergoly e Dario de Tuoni. Rimarcai che Zoran era piuttosto serio e taciturno di fronte alla spigliatezza dei triestini, in modo speciale del Cernigoj.
Da soli parlammo a Lubiana, ci fermammo davanti a una banca e discutemmo d’arte, credo a mia iniziativa, perché era l’epoca in cui dominava l’«École de Paris» ed io non ero, come non lo sono tuttora, per l’arte informale. Non è che non l’apprezzi ma non mi soddisfa, mentre Zoran la accettava. Devo dire però che, sebbene sapessi di Dachau, non sapevo dei suoi disegni. Lui controbatté alla mia affermazione che ciò che è importante è il corpo umano, adducendo il compito della fotografia, dato lo sviluppo di quella a colori. Là mi impuntai, trovando il ragionamento troppo semplicistico e pensando ad un tempo che egli se ne serviva perché riteneva che il mio rifiuto decisivo della pittura informale dipendesse dalla mia pedissequa fedeltà al realismo. Ma credo di aver aggiunto che ero rimasto a Chagall e ci trovammo d’accordo che in fondo la cosa principale non è l’école ma la qualità dell’opera. Fu un non-incontro, perché non accennammo né lui né io a Dachau, sebbene eravamo rimasti segnati tutti e due e io ci fossi stato, a Dachau, perfino due volte. Succede spesso, quando si incontrano due ex deportati, di parlare di tutto all’infuori del Lager; è stato così anche durante l’incontro con Stéphane Hessel: in un’ora di dialogo non abbiamo detto nulla del Campo di Dora che abbiamo ricordato solo con un abbraccio e col darci del tu.
Sì, Zoran poi l’ho seguito quando ce n’era l’occasione, l’ho ammirato alle mostre, scoprii i disegni di Dachau con immensa soddisfazione: un prezioso documento salvato e presentato da un grande artista. E poi quella era una testimonianza dei Campi per politici, dai «triangoli rossi», Campi con più di tre milioni di morti. E fui contento di non aver accennato a Dachau durante l’incontro sul marciapiede di Lubiana; Zoran infatti aveva preso in considerazione i corpi, anzi i corpi distrutti, ridotti a carcasse, a covoni, a mucchi di carcasse, quindi avrebbe potuto dirmi che era normale mi dedicassi a motivi meno esigenti. Tanto più che confessava come l’esperienza del Campo era valsa a modificare radicalmente il modo di considerare l’esistenza e l’essenza della vita.
Fatto sta che da parte mia ci ho messo del tempo per poter descrivere in maniera appropriata e degna il mio passaggio nell’universo concentrazionario, e solo nel 1967 riuscii a testimoniarlo in un testo che intitolai Nekropola, in sloveno, e che in un racconto unisce il Campo di Dachau con quello di Struthof-Natzweiler sui Vosgi, di nuovo Dachau, Dora-Harzungen, Bergen Belsen. Si tratta di Campi ai quali ho già accennato, che insieme a Buchenwald, Mauthausen, e loro dipendenze, sono stati destinati ai politici ai quali ho già accennato, agli antinazisti, ciò che di solito non si fa notare, purtroppo.
Ecco che con Nous ne sommes pas les derniers Zoran Mušic rivede la verità storica, proprio sottolineando che non si è affatto sicuri che i Campi non si ripetano. E questo è il valore maggiore della nuova serie di opere, che sicuramente si presenta con un valore artistico supremo.
Questo per telefono glielo dissi, quando si parlò di un suo disegno per la copertina dell’edizione americana del mio libro a New York, ciò che non si realizzò poiché l’editore aveva un progetto suo, ma non ebbi l’occasione di parlare più a lungo appunto del suo ritorno ai motivi dei Campi. E fu certamente una perdita.
Anche perché a Zoran avrei detto sinceramente che per conto mio le opere datate Dachau 1945 meritavano di avere il titolo che avevano le nuove richiamate dalla memoria, e nate da un lavoro di concentrazione che le arricchiva riguardo all’arte ma ne toglieva l’immediatezza testimoniale. Certo, si sarebbe opposto tanto di più perché i disegni di Dachau li riteneva come dei documenti e sbagliava, perché erano sì documenti, ma di un disegnatore che era il Goya del XX secolo.
Speravo di poter dire della mia impressione da deportato che per un anno era stato con i morenti ed i morti del «Revier», all’inaugurazione della mostra al Grand Palais, ma ho potuto solo stringergli la mano, affermare il grande valore della sua opera in generale e della serie «Noi non siamo gli ultimi», un valore in particolare per la coscienza europea, offerto per merito di un eminente rappresentante della cultura slovena. Non ne ebbi il tempo: un gruppo se lo accaparrò, seguito poi dal presidente Mitterrand.

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