Il popolo degli orfani

Forse l’ultimo momento in cui ci si chiamò così furono i funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984 L’ultima occasione in cui la “gente comunista” occupò pienamente la scena, nel dolore e nell’orgoglioAlla fine degli anni ‘ 70 il declino di una comunità 

Forse l’ultimo momento in cui ci si chiamò così furono i funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984 L’ultima occasione in cui la “gente comunista” occupò pienamente la scena, nel dolore e nell’orgoglioAlla fine degli anni ‘ 70 il declino di una comunità  Quando iniziò ad appannarsi la «forza propulsiva» della parola? Il passaggio dall´ultima fase espansiva al declino è in realtà molto breve. Negli «anni ´68» il suo fascino dilaga ben oltre le fila tradizionali del movimento operaio ma l´inversione di tendenza non tarda molto: la crisi è evidente ben prima del 1989, e si avverte già nel declinare degli anni settanta. Nella stagione del terrorismo gli assassinii dei «compagni che sbagliano» recano il primo colpo mortale ed evocano al tempo stesso crimini del passato ancor più tragici ed enormi, compiuti in nome dell´idea. Incrinano certezze e rimozioni. «Un compagno non può averlo fatto», diceva la canzone dedicata a Pino Pinelli all´indomani della strage di Piazza Fontana: allora era profondamente vero ma pochi anni dopo i compagni lo avrebbero realmente fatto. Ancor peggio stavano facendo i compagni del Vietnam: il paese che era stato centrale per il tumultuoso volgersi a sinistra di una generazione diventava l´immagine e la rivelazione devastante di una menzogna storica. E il dissenso dell´Est iniziava, sia pur con molta fatica, a trovare interlocutori meno insensibili che in passato.

«Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani», scriveva Lotta continua il 31 dicembre del 1977. Di lì a poco rimarrà solo l´essere orfani, e la parola era ormai accerchiata anche su altri versanti. Lo slogan più diffuso e più limpido degli «anni ’68» era stato «operai e studenti uniti nella lotta»: per il «movimento del 1977» gli operai sono diventati i “garantiti”, quasi una comunità di privilegiati. Per la prima volta un movimento di sinistra vedeva nella classe operaia non il punto di riferimento di una vasta comunità di compagni ma un disvalore. E gli operai stessi, lo registravano allora le inchieste di Giulio Girardi, sentivano appannarsi quel senso di comunanza. Nel 1980 la «marcia dei quarantamila» della Fiat, con la sua capacità di rappresentare umori che andavano ben al di là dei “capi” e degli impiegati, verrà solo a chiudere duramente il cerchio.

In quello stesso anno dall´interno del Psi di Bettino Craxi prendevano forte impulso anche altri processi che a quella parola avrebbero irrimediabilmente attentato. Non solo e non tanto per il crescente prender le distanze dai simboli e dai riti del primo socialismo quanto per il progressivo privilegiare i ceti emergenti rispetto a quelli sofferenti e, più ancora, per quella vera e propria “mutazione genetica” del partito che verrà ampiamente alla luce molto prima di Mani pulite.

Anche altri processi travolgono però l´idea stessa di un´appartenenza collettiva. Già nel 1978, nel momento più cupo degli «anni di piombo», il trionfo de La febbre del sabato sera annuncia il “riflusso” che avrebbe caratterizzato gli anni ottanta. «Non so più a chi non credere», dice un personaggio di Altan, ed erano davvero molte le identità, le speranze e le idee che rifluivano. Forse l´ultimo grande momento in cui ci si chiamò compagni senza ombre o reticenze furono i funerali di Enrico Belinguer, nel 1984: l´ultima occasione in cui il “popolo comunista” – e, più in generale, il popolo di sinistra – occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio. Profondamente diverso, certo, da quello che aveva invaso Roma alla morte di Palmiro Togliatti, eppure ancora reale: ancora una folla di compagni. A ben vedere, le immagini e le interviste raccolte allora da una nutrita schiera di registi ci riconsegnano, ben prima del 1989, un mondo in via di scomparsa. Ci aiutano, anche, a riflettere su di esso e sulla nostra storia.

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