Cantine, dacie e spie Fantasmi comunisti per le strade di Mosca

Dal palazzo del Kgb al rifugio di Stalin

Dal palazzo del Kgb al rifugio di Stalin

MOSCA — Accanto al Cistye Prudy, il Lago Pulito, c’è la casa di Abakumov, capo della temibile Smersh — acronimo di «Smert Shpionam», ovvero «Morte alle spie» — che venne fucilato gli ultimi giorni del 1954. La zona, però, è amena e sembra concepita per i sospiri dei fidanzatini; quando è sole, se non gela, diventa luogo di appuntamenti. Non distante si scorge il teatro Sovremennik, il Contemporaneo, dove l’avanguardia al tempo di Kruscev rappresentò opere marxiste destalinizzate e, dopo il crollo dell’Urss, drammi visceralmente anticomunisti. Qui incontriamo Anton Antonov, autore di Prospettiva Lenin. Dopo l’edizione italiana uscita da Feltrinelli il suo libro, tradotto in russo, è il successo di questi mesi.
Le storie incrociate di Ivan e Salvatore, con le quali ammicca e celia Antonov nell’opera, ci portano a visitare alcuni luoghi del vecchio potere comunista per tentare un confronto con le destinazioni di oggi. Il primo appuntamento non poteva che essere la casa di Abakumov, definita dai sovietici doc — per l’esagerato lusso in essa accumulato — «Luogo delle torture». Diventò sinonimo di ricchezza, vergogna, iattanza e, per l’etica dell’Urss, tormento delle coscienze. Qualcuno, come lo stesso Abakumov, nelle cantine subì le fantasie dei carnefici, ma tali crudeltà si consumarono dopo lo scoppio dello scandalo. Sino all’arresto del padrone di casa essa rappresentava la tortura delle coscienze dei compagni causata dallo sfarzo. Cosa accadde tra queste mura?
Diremo innanzitutto che la dimora fu, prima di essere espropriata all’inizio degli anni Trenta da Abakumov, una komunalka, ovvero in essa vivevano diciotto famiglie con camere separate e servizi in comune. Poi piacque all’influente uomo del controspionaggio e, in pochissimo tempo, gli inquilini furono cacciati e lui se ne appropriò, trasformandola in una residenza esclusiva.
Il suo potere crebbe dopo i fatti del 6 novembre 1931, quando un tale Ogarev, già ufficiale bianco e poi agente segreto dell’Intelligence britannica, cercò di uccidere Stalin. Lo attese alcuni giorni sulla centralissima via Iljinka, che porta dal Politburo al Cremlino, e quando lo vide voltare l’angolo mise mano alla pistola. Viktor Abakumov, giovane ufficiale dei servizi segreti, spinse con forza l’attentatore e riuscì a salvare il Piccolo Padre. Da quel momento diventò un eroe in carne e ossa; poi, soffocato dal successo, perse la testa. In quella casa sperperò oltre un milione di rubli pubblici per renderla insuperabile. Ma dopo la guerra i mormorii non gli concessero tregua: nel 1951 fu arrestato, subì tre anni di processo, ai quali seguì la condanna. La magione tornò allo Stato e, sino alla fine dell’Urss, ospitò capi dei servizi segreti dei Paesi fratelli. Oggi vi accoglie un portiere in divisa, cordiale, rubicondo. Nel cortile sono posteggiate macchine di alta cilindrata. Oligarchi, servizi, altro? La risposta: «Uffici». Di certo lusso e «torture» sono ricordi. Comunque, qui si lavora e le lampade al neon che si vedono dal cortile testimoniano il cambiamento.
Antonov, poi, ci invita in una stradina accanto al giardino di Abakumov e, dopo un pertugio tra alberi secolari, ci mostra l’anonimo palazzo della Dezinformatsija. In esso non si entrava mai dalla porta principale, ma sempre da una delle tante di servizio. Era il luogo dove si costruivano testi, poi firmati da giornalisti occidentali amici e ben retribuiti, per influenzare l’opinione pubblica straniera. Il lavoro era svolto da diversi settori: accordi commerciali, economia, politica, cultura eccetera. Il suo fine, a differenza della propaganda comunista o di agenzie come la Tass, consisteva nel combattere la disinformazione capitalista facendo circolare le verità del Cremlino. Questa casa «normale» ebbe un ruolo notevole dagli anni Trenta al tempo della Guerra fredda. Oggi? È ancora grigia, con nuove finestre (di plastica), mancante di pezzi di intonaco. C’è ancora qualcuno che entra furtivamente, occhieggiando intorno. «Scusi, chi abita qui?», chiediamo a un signore che ha premuto un campanello lontano dai citofoni. «Impiegati e operai», è la rassicurante risposta.
Dopo una trentina di minuti, sfidando il traffico caotico di Mosca, si arriva alla Lubjanka. Al tempo degli zar qui c’era una piazza dove si vendevano libri e stampe (forse da «Lubok», incisione su legno), ma dal 1918 il luogo è diventato quello leggendario dei servizi segreti. Certo, c’era una volta anche la casa di Majakovskij, ma è stata inghiottita dagli edifici prima dell’Nkvd, poi dell’Mgb, quindi del Kgb e infine dell’Fsb, tutte sigle che indicano la medesima cosa. Si narra che qui abbia passeggiato non poco Ian Fleming prima di dar vita a James Bond, l’agente segreto che in codice divenne il celebre 007 (numero che fu il prefisso telefonico dell’Urss e ora lo è della Russia). Antonov ricorda che il suo Ivan, brillante agente del Kgb, in questo possente edificio lasciò molti sogni. Ai quali c’è ben poco da aggiungere: qui c’erano servizi segreti e qui ci sono servizi segreti. Anche se ora è possibile camminare nella zona — non è il caso di farlo davanti al portone principale della Lubjanka — senza essere subito fermati. Qualche occhio vi osserva sempre ma, come si suol dire, discretamente.
Per mostrare invece un certo cambiamento occorre recarsi al palazzo che fu del Politburo. Ex banca dell’impero zarista, poi centro politico del comunismo sovietico, ora ospita gli uffici del presidente della Federazione russa. Stanno recintando il luogo, forse per scoraggiare i curiosi. Il mito dell’Urss vi aleggia: si decisero, tra l’altro, l’invasione dell’Ungheria, della Cecoslovacchia e dell’Afghanistan; oggi si sbrigano pratiche. Stalin e Lenin, Kruscev e Breznev, Andropov e Gorbaciov sono stati sostituiti da grigi burocrati, noiosi come le loro liturgie. E i giardini che stanno davanti, un tempo blindati dalla polizia, ora sono diventati il ritrovo degli omosessuali di Mosca. È successo a questo palazzo il contrario di quanto è capitato alla cattedrale di Cristo Redentore: dopo che nel 1934 Lazar Kaganovich ordinò di farla esplodere con la dinamite, si costruì al suo posto una piscina scoperta con acqua calda. La colonna di fumo che si elevava nei mesi freddi cessò al tempo di Eltsin, quando la più grande chiesa di Russia fu ricostruita (senza i marmi pregiati degli zar). Ora è la sede del patriarca di Mosca. Antonov osserva lo scranno dove si siede «sua beatitudine» e sussurra: «Oggi il potere, abbandonato il Politburo, prega e trova requie sopra o attorno a questo sedile rosso».
Chiudiamo l’itinerario recandoci alla dacia di Kuntsevo-Volynskoe, nella quale Stalin morì, dove sovente dormiva e in cui ricevette non pochi capi comunisti (Togliatti la conosceva, anche Mao). Rinunciamo a soffermarci in quella di Kruscev — non fu un vero centro di potere e il segretario silurato vi trascorse la quiescenza — perché si trova in completa rovina e solo a vederla si stringe il cuore. L’ultima dimora del Piccolo Padre, invece, è viva, rutilante. Dista una ventina di chilometri dal Cremlino e ormai si confonde con la periferia di Mosca. Palazzi diseguali e arroganti la stringono; in uno di essi si vendono appartamenti con la scritta: «Dacia di Stalin». L’edificio, perfettamente conservato, si trova nell’ultimo bosco rimasto, protetto da un recinto verde con il filo spinato. Un cartello segnala una scuola militare e alla porta d’ingresso vi bloccano, intimandovi di non scattare foto. Occorrono permessi, giorni di attesa. Non c’è gentilezza. Poi qualcosa riusciamo a raccogliere e a fare. Forse perché la sentinella non sa rispondere alla nostra domanda in russo sgangherato: «Ma è vero che Stalin cantava i Salmi mentre viaggiava in auto per raggiungere questa dacia?».

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