L’uomo che legge Gramsci agli alberi

Drammaturgo e scrittore: le vere rivoluzioni iniziano dal linguaggio. La sua parola errante dà  speranza agli esclusi. «Mao mi spiegò la poesia»

Drammaturgo e scrittore: le vere rivoluzioni iniziano dal linguaggio. La sua parola errante dà  speranza agli esclusi. «Mao mi spiegò la poesia»

Mi scusi signor Gatti, che cosa pensa dei gatti? Armand Gatti, classe 1924, drammaturgo, poeta, scrittore, giornalista, regista, si guarda intorno nella casa di famiglia di Pianceretto in Piemonte. Come l’altra abitazione di Parigi (atelier, biblioteca, teatro…) anche qui ogni spazio è riempito da libri, quadri, calligrafie cinesi, manifesti teatrali, fogli, fotografie, sculture e un bellissimo orologio che segna il passare del tempo cinguettando come il pettirosso. Una vera wunderkammer, un infinito luogo della memoria, simulacro di una vita all’insegna della parola, anzi della Parola errante. Sull’entrata una meridiana con inciso un verso di Plotino: «Lavoro per liberare la divinità». «Noi siamo figli della parola/nati dal ritmo del mare» dice Gatti in un suo poema, ma poi non dimentica di gettare il sasso in quel mare per creare onde di disturbo: «…le parole diventano pensiero nel momento in cui entrano in turbolenza». Insomma, la parola come lungo cammino verso la libertà.

Gatti, con il suo maglione nero che avvolge una figura ancora possente, guarda sornione e capisce: si porta le mani al viso e ride, ride di gusto perché questa domanda insulsa — che cosa pensa dei gatti? — lo riporta a quando lui, giovane giornalista di «Paris Match», chiese la stessa cosa all’inavvicinabile Angelo azzurro, la grande Marlene Dietrich che gli aveva concesso un’intervista in esclusiva.
Ma la divina non capì lo spirito della domanda, non stette al gioco, e allora Gatti si alzò, andandosene senza il pezzo per il giornale tra le urla che lo inseguirono sino al direttore, al quale fu richiesta la testa (inutilmente) di quell’impertinente cronista. «Volevo solo accedere alla verità dalla Dietrich, oltre la scorza dello spettacolo», raccontò poi davanti agli increduli colleghi. In questa scena c’è tutto Armand Gatti: irrequieto, ironico, sfrontato, imprevedibile, anarchico. Un irregolare, insomma. Ma geniale, sempre. Come quando, nel ’54, ancora come inviato, per un servizio sul mondo dei domatori non esitò a mettere la sua testa dentro la bocca di una leonessa: «Volevo capire cosa si provava lì dentro». Ne uscì un articolo che gli fece vincere il Prix Albert Londres, il Pulitzer francese. Anche in questo caso il gesto e la parola come ribaltamento dei codici, come rivoluzione: «Le vere rivoluzioni cominciano tutte dal linguaggio», precisa.
E il linguaggio rappresenta il filo conduttore di tutto il suo teatro, anzi, della sua stessa esistenza. «Le parole mi leggono» dice spesso. Una parola non arriva per cancellare la precedente, ma per arricchirla. Non scrivo mai su qualcosa, ma con qualcuno. Nella parola, come nell’atomo, c’è un’equivalenza: la particella (la sillaba) è la stessa cosa che la sua onda, nel senso che l’accompagna. Solo così può continuare l’erranza della parola».
Non a caso, il suo è un teatro incandescente, che parla delle ingiustizie, che tocca i grandi temi dell’esistenza, un teatro militante. Gatti si muove come uno sciamano sui confini del visibile e dell’invisibile: cita la fisica quantistica, viaggia tra le scritture orientali, percorre il pensiero delle filosofie e delle religioni. Un lavoro di intervento e interrogazioni certamente anche teoriche, ma sempre dentro la carne viva della vita. Per questo a Gatti è così caro San Francesco d’Assisi: «…perché sempre dalla parte della vita. Anche in punto di morte ha chiamato Chiara ed è morto in piena apoteosi».
E ricorda: «La parola è il vero elemento collante tra gli universi e ogni uomo è un sole». Un sole spesso oscurato dal dolore ma per il quale comunque vale la pena combattere. D’altronde, la sua stessa vita è stata una battaglia per la difesa dei diritti elementari, battaglia incarnata dalla figura simbolo del padre, Augusto, che ha ispirato una delle sue opere più importanti: La vita immaginaria dello spazzino Augusto G.
Non si può comprendere l’opera di Gatti se non si conosce la vita del padre: emigrato negli Stati Uniti, anarchico e pacifista, assiste all’impiccagione dei fratelli Vittorio e Alfonso, anche loro emigranti italiani, uccisi, innocenti, come i più celebri Sacco e Vanzetti. Fatto che aumenta la sua indignazione: «Durante uno sciopero — ricorda Gatti — mio padre viene sequestrato da una squadra della Pinkerton, l’agenzia investigativa usata per soffocare le battaglie dei lavoratori. Chiuso in un sacco, viene pugnalato e gettato nel lago di Chicago. Ma le 22 coltellate strappano il sacco e Augusto sopravvive».
Il padre di Gatti non può tornare in Italia: è ricercato dalla polizia di Mussolini come sovversivo. Si ferma a Monaco, nel Principato, dove nasce Dante Sauveur Gatti, chiamato Armand. «Mio padre Augusto — spiega Armand — a Monaco lavorava come spazzino, militando sempre nelle fila anarchiche in un gruppo dove c’erano anche dei sopravvissuti di Kronstad. Lui era un vero poeta, a suo modo un inventore di immagini. Difendeva la natura e piantava alberi attorno al casinò contro la speculazione edilizia che premeva per costruire. Lo hanno trovato una mattina con la testa fracassata accanto al carretto delle immondizie. La sua colpa? Piantare alberi. Lo hanno ucciso per questo».
«Ero figlio di emigranti poverissimi. Ricordo che mio padre all’ora di pranzo faceva apparecchiare tutti i giorni la tavola e ci obbligava a sederci. Naturalmente quei piatti rimasero sempre vuoti. Una grande immaginazione la sua: ci alzavamo e ci sembrava di essere sazi. Mi difendevo furiosamente nelle strade, a scuola ho scoperto che la mia vera arma doveva essere solo la parola. La lingua è diventata così una famiglia, l’esistenza stessa, il tutto». Era naturale la sua entrata nella Resistenza. Poi, il destino lo ha portato anche in un campo di lavoro in Germania. Ma torna a casa a piedi attraversando l’Europa: «Mi resi conto solo dopo che avevo fatto lo stesso tragitto di Hölderlin quando era partito verso il sole, dal mar Baltico all’Atlantico». A forza di leggere, alla fine della guerra Armand Gatti non sapeva fare altro che scrivere. Comincia così la sua carriera nei giornali, che gli sta stretta, ma che lo porta ad avere incontri straordinari.
«Se le vite avessero i titoli di testa, in quella di Armand Gatti vedremmo scorre in disordine quella di Mao Tse-tung, Marlene Dietrich, Charles de Gaulle, Ernesto Che Guevara, Simon de Beauvoir, Paolo Grassi, Fidel Castro…», ricorda Marco Cicala in un bel volume (Tre anarchici: il poeta, il rivoluzionario, il falsario, edizioni Forum) in cui si narrano le vite di Abel Paz, (il rivoluzionario) Lucio Urtubia (il falsario) e di Armand Gatti, appunto, il poeta.
Già, il poeta. Non sembra vero, ma la sua poesia è partita da un incontro con Mao Tse-tung: «Mao ha cominciato a parlarmi come nascono i nomi nella lingua cinese, abbiamo discusso a lungo degli ideogrammi: suo padre lo chiamò Mao perché vuol dire pennello e il padre lo voleva pittore…».
Gatti fa ondeggiare nell’aria le mani enormi e affusolate come un direttore d’orchestra. E continua: «Noi siamo sempre alla ricerca del senso della vita. C’è il maschile, il femminile, poi c’è il soffio. Sì, il soffio. È il soffio dell’anima che muove e contiene tutto. Ricordiamoci che non c’è una risposta, c’è solo una domanda. E Mao mi disse che dovevo cercare questa domanda attraverso la poesia. Tutto è cominciato da lì…».
Gatti è un poeta che vive la Parigi dei surrealisti, con l’entusiasmo di un ragazzo vorace della vita: «Un giorno, vado a una mostra d’arte, ricorda. Un uomo mi mette una mano sulla spalla e mi sussurra: “amo molto quello che fa”. Quell’uomo era Pablo Picasso».
Ovviamente nasce un’amicizia. E quell’amicizia porta ad altri incontri: «Mi fece conoscere Paul Eluard. Un giorno mi disse: io e te non siamo d’accordo su molte cose. Sai cos’è per me la rivoluzione? E allora Paul si mise a cantare invocando un nome: Nush, Nush, Nush… Apparve una ragazza molto bella. Voilà le revolucion… ecco, la mia rivoluzione».
C’è una foto tra i libri in cui si vede un giovane Armand, sorridente e bellissimo: anche lui ha vissuto molte rivoluzioni, per dirla alla Eluard. Una (durata molto breve, in verità) anche con Simone de Beauvoir: «Sei un anarchico, quindi un reazionario, mi ripeteva ossessivamente».
Sul tavolo, tra gli appunti, i fogli e i libri, una tigre, e altri piccoli di animali di plastica. Sembra sia passato da quelle parti un bambino: «Perché sono qui accanto a me? Con loro parlo, c’è un dialogo che non si interrompe mai. Parlo più con loro che con il mio vicino», dice scherzando.
Poi, guardando il suo giardino di querce e faggi ricoperti dai colori dell’autunno: «Anche con loro parlo. Ne pianto uno ogni volta che un vero amico viene a trovarmi e lo battezzo con il Grignolino. Spesso esco e tra le foglie leggo i libri agli alberi…come facevamo durante la Resistenza a Berbeyrolle quando ci hanno preso: leggevamo Gramsci agli alberi».

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