CONTRO IL CARCERE. Non càè detenuto di qualsiasi prigione del mondo che non sogni gli capiti come a Pietro di Alife, che venga san Francesco a sciogliergli i ceppi e aprirgli le porte verso la libertà .I miracoli, però, non succedono mai ai detenuti o accadono di rado.
CONTRO IL CARCERE. Non càè detenuto di qualsiasi prigione del mondo che non sogni gli capiti come a Pietro di Alife, che venga san Francesco a sciogliergli i ceppi e aprirgli le porte verso la libertà .I miracoli, però, non succedono mai ai detenuti o accadono di rado.
E per evadere, come dice Renato Vallanzasca, «ci vogliono almeno cinque minuti», cioè ci vogliono organizzazione, amici fuori che ti sostengono prima e dopo, complici, armi, strutture, soldi, corruzione, tutto un ambaradam che non metti in piedi in cinque minuti e dove non basta il fegato o il culo.
Io lo so.
Ci ho provato anch’io nei miei anni di carcere.
Da solo.
Senza successo.
A Napoli, a Poggioreale,m’avevano sbattuto al padiglione San Paolo, che funzionava da ospedale interno, dopo un lunghissimo sciopero della fame per evitare di finire negli speciali (dove, invece, dopo un primo accomodamento, dalla Chiesa ci spedì) che m’aveva ridotto uno scheletro; e lì c’era una maggiore libertà di movimento.
Quasi tutti ci stavano per motivi che poco avevano attinenza con le malattie, erano dei privilegiati o per motivi propri o per motivi graditi alla direzione del carcere.
Il padiglione era a ridosso del portone di accesso di Poggioreale.
Una posizione strategica.
Da una finestra con le inferriate vedevo proprio il portone, un pezzo di camminamento e la garitta delle guardie.
Non era impossibile arrivarci.
E avrei potuto fare tutto da solo.
O quasi.
Però, a Napoli, una volta scappato, potevo contare su appoggi esterni, mi avrebbero nascosto e protetto, per il periodo necessario.
E questo, dove andare subito dopo l’evasione, è proprio un elemento fondamentale, che devi programmare prima.
Cominciai a muovermi su e giù nel padiglione, con prudenza ma forse troppo, e ebbi la sventatezza – ero ancora fresco di galera – di parlarne con qualcuno.
Mi spedirono negli speciali in quattro e quattr’otto.
Ancora a Napoli anni dopo, di passaggio per un processo in una sorta di specialino, da fuori erano riusciti a farmi entrare una lima nascosta in un blocco notes, sottilissima ma efficientissima, professionale.
Non sapevo bene dove era meglio segare, dove sarei finito uscito dalla cella, però da dove stavo io si raggiungevano dei tetti e magari da lì…
Cominciai a provarci, senza tagliare a fondo le sbarre perché le sbattevano ai turni di controllo.
Funzionava.
Avevo poco tempo, perché il processo sarebbe durato poco.
Ero indeciso se provarci subito o tenermi l’occasione per un’altra volta, organizzandola meglio, magari non da solo.
L’incertezza mi fregò.
Fui rispedito negli speciali, d’improvviso e di notte e non potei portarmi dietro la lima che avevo nascosto nel bagno perché furono le guardie della squadretta a mettere assieme le mie cose – facevano così: arrivavano in sette, otto e ti prendevano com’eri nel letto e ti impacchettavano senza il tempo di dire bah.
Io non ci tornai più là e non l’ho mai detto a nessuno.
Magari è ancora là, quella lima.
* Pubblichiamo parte dell’introduzione «Abolire il carcere» da La fuga dal Carcere – Le evasioni diventate Storia. Volume I. In attesa della Timothy Leary… DeriveApprodi editore
0 comments