CRISI ITALIANA. Più degli intenti che il governo ha espresso a Bruxelles, tutti abbondantemente noti e figli di una povertà culturale e politica altrettanto nota, mi preoccupano metodo e tono di un’opposizione politico-mediatica ormai affetta in larga maggioranza dalla sindrome Abb.
CRISI ITALIANA. Più degli intenti che il governo ha espresso a Bruxelles, tutti abbondantemente noti e figli di una povertà culturale e politica altrettanto nota, mi preoccupano metodo e tono di un’opposizione politico-mediatica ormai affetta in larga maggioranza dalla sindrome Abb. Questo All But Berlusconi («Chiunque purché non Berlusconi») riecheggia quella politica dell’All But Bush che ha consentito agli uomini di Goldman Sachs di mantenere tutte le leve economiche di Washington. Nessuno può negare che l’ amministrazione Obama, consigliata da Larry Summers e Timothy Geitner, abbia “gestito” la crisi senza alcuna soluzione di continuità rispetto al saccheggio del pubblico a favore del sistema finanziario già messo in piedi da Paulson dopo il 15 settembre 2008.
Il governo italiano è oggi contestato principalmente per quello che “non ha fatto” o che “non saprà fare” per ubbidire ai diktat di un’Europa ormai ridotta a grottesca cassa di risonanza della stessa Goldman Sachs, simbolo del potere privato più forte di tutti gli Stati. Naturalmente, questa non è una facile allusione al mestiere che faceva Mario Draghi, che della grande banca d’affari è stato vicepresidente, ma di una ben più strutturale preoccupazione per un’Europa la cui mancanza assoluta di legitimazione politica non può più essere tollerata. Nell’assenza della politica, nella crisi della sovranità e nella conseguente totale debolezza del settore pubblico, prospera l’interesse privato. Nell’attuale forma ciò significa campo libero al capitalismo azionario globale che sorregge il complesso militare-finanziario detentore del potere e responsabile della crescente disparità sociale.
Da vent’anni il consenso di Washington, con i suoi dispositivi coercitivi, mediatici ed accademici, ha conquistato l’egemonia ed oggi, mentre la sta perdendo, cerca nei governi europei spaesati nuovi e zelanti “buoni allievi”. Come già molti governi corrotti nel sud globale, anche quelli europei oggi si mostrano disposti a ridurre alla fame i propri popoli, promettendo “crescita”, il corrispondente “al centro” di quello “sviluppo” che da troppo tempo legittima il saccheggio della “periferia”.
Progressivamente, sulle ali di Reagan e della Thatcher, rese bipartisan da Clinton, da Blair e in Italia dai “governi tecnici” dei primi anni novanta, il mondo è stato trasformato, se va bene, in un gigantesco discount store, dove gli azionisti globali capitalizzano l’ignoranza costruita ad arte. Se va male, esso è ridotto a un ammasso di rovine prodotte da guerre e devastazioni climatiche. In questo quadro, l’assalto consumistico alla Trony e la devastazione delle Cinque Terre, sono i due lati di una stessa medaglia: il quadro ecologico e sociale prodotto dalla politica bipartisan.
L’Italia non ha bisogno di un governo di “buoni allievi” incapaci di cogliere il cambio di egemonia che il movimento per i beni comuni sta provocando nel paese. Peggio dell’attuale governo di incapaci, velleitari o fascisti, forse sarebbero perciò un “governo tecnico”, un “governo del presidente” o peggio ancora “un governo amico”, più capaci e zelanti nel portare a termine la macelleria sociale che da qualche anno chiamiamo “riforme”. Occorre il coraggio di smascherare ogni disegno autoritario e distruttivo (di cui la Tav in Valsusa è il simbolo più inquietante) da chiunque condotto, pur se legittimato ai più alti livelli. Occorre seguire con coraggio un’azione politica che stabilisca la nuova egemonia attraverso disubbidienza civile e riappropriazione diretta dei beni comuni. Non è questione di destra o di sinistra. Il buon senso ci obbliga a constatare che i “cattivi allievi”, come l’Argentina e l’Islanda, hanno fatto incomparabilmente meglio del buon allievo europeo per eccellenza, ossia la Grecia di centrosinistra la cui fine inevitabilmente faremmo se ubbidissimo all’Europa. Se una teoria di economia politica non funziona per spiegare o cambiare il mondo non è un problema del mondo ma della teoria. Vogliamo farcene una ragione? Possiamo finalmente pensare a un futuro in cui la nuova egemonia dei movimenti si traduca in assetti istituzionali dove le persone contano più dei profitti?
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