L’inchiostro simpatico del presente postcoloniale

SCAFFALE/1 «Memorie oltre confine», un saggio di Gabriele Proglio per ombre corte
Le opere di scrittori e scrittrici che svelano la compresenza di storie e memorie diverse occultate nella narrazione della storia italiana e europea

SCAFFALE/1 «Memorie oltre confine», un saggio di Gabriele Proglio per ombre corte
Le opere di scrittori e scrittrici che svelano la compresenza di storie e memorie diverse occultate nella narrazione della storia italiana e europea

 La narrativa è «il terreno sul quale sperimentare strategie di alterazione della discorsività, e quindi anche della storia», questo, in estrema sintesi, il motivo che ha spinto Gabriele Proglio ad avventurarsi, da storico, nell’interpretazione di narrazioni d’invenzione. Lo ha fatto nel libro appena uscito da ombre corte (con una lucida prefazione di Luisa Passerini) Memorie oltre confine. La letteratura postcoloniale italiana in prospettiva storica (Ombre corte, pp. 174, euro 17). Quali narrazioni? Quelle che il sottotitolo definisce come costitutive della «letteratura postcoloniale italiana», etichetta ancora poco in uso presso la critica letteraria italiana, che indica un insieme di testi nei quali la modernità europea emerge come modernità sfigurata, anche, e significativamente, dal colonialismo. Testi di autrici e autori come Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Erminia Dell’Oro, Igiaba Scego, Shirin Ramzali Fazel, Nurrudin Farah che non raccontano semplicemente un’altra storia, contrapposta, entro una prospettiva duale, al racconto dominante, bensì costringono lo storico a fare i conti con delle discontinuità, con la compresenza di storie e memorie che interrompono la continutà della narrazione della storia nazionale, europea. Certo, queste narrazioni sono portatrici di un diverso punto di vista sulla storia coloniale dell’Etiopia, della Libia, della Somalia, dell’Eritrea, ma non è solo questo il punto.

Ad essere posta in questione non è solo la rimozione del colonialismo italiano e delle sue efferatezze operata nel senso comune, rimozione ricordata di recente da Jedlowskj, che riposa sul mito degli «italiani brava gente», già demistificato da storici come Del Boca, Labanca, Triulzi e altri. Ad essere in questione è la coesistenza di forme sociali e culturali non omogenee, originarie di luoghi tra loro anche profondamente diversi. È questa la situazione nella quale nasce una letteratura postcoloniale o della migrazione, in Italia come altrove, scritta da autrici e autori che abitano uno spazio e un tempo che si confronta con l’universo di partenza e con quello di arrivo e chiedono allo storico di riflettere sulle rappresentazioni del passato che riposano sulla linearità e la scansione cronologica della Storia europea, di confrontarsi con l’emersione di tracce di storie che sono rimaste sino ad ora invisibili.
Tracce che vengono alla luce in narrazioni implicate in «una dimensione del tempo non separabile dai tempi soggettivi, dalle vite degli antenati come delle nuove generazioni». Non è importante in questo contesto la qualità letteraria dei testi esaminati, qualità diseguale nei casi analizzati, quanto, come sottolinea Passerini nella prefazione, la loro pregnanza per la storia culturale, che non discrimina nella scelta degli oggetti di indagine sulla base della vecchia distinzione tra letteratura alta e bassa, che non si interessa del canone, benché, occorre precisare, questi testi costituiscano una messa in discussione del canone, che come tale impone esclusioni fondate sulla divisione tra centri e periferie della produzione culturale.
Al centro del libro sono racconti che raccolgono le memorie della resistenza all’occupazione in Etiopia o che ri-posizionano il soggetto postcoloniale fuori del dominio dell’italianità, iscrivendo le storie e le memorie all’interno del «terzo spazio» abitato dal migrante. Narrazioni che contengono un cortocircuito tra passato, presente e futuro.
La parola è testimonianza di una presenza che reagisce all’invisibilità che colpiva il meticcio nel periodo del colonialismo fascista recandone traccia. Contemporaneamente essa testimonia la presenza oggi di soggetti diasporici che lottano contro l’invisibilità e costituiscono una rete «che sta spostando, in modo definitivo e senza ritorno, l’equilibrio dell’Europa». Non si tratta di chiedere a questi testi il racconto della verità, ma di registrare come essi operino un decentramento della storia occidentale ed europea, un decentramento che «serve al soggetto postcoloniale come arma del e nel presente».
Questi testi dunque, letti nella prospettiva di Proglio, non aprono solamente la via a una riconsiderazione del passato, ma immaginano spazi e tempi nuovi, rivendicano dignità agli sfruttati di ieri e insieme a quelli di oggi. In questo via vai di diverse spazialità e temporalità, non certo irrelate, essi interpellano il nostro (un nostro che ci costringono a pensare come superamento della dicotomia noi/loro) presente. Si tratta della creazione di una mitologia fatta di modelli che sappiano parlare al presente, ad esempio nei racconti della resistenza etiope di Ghermandi, della interrogazione delle conseguenze della costruzione di una «razza italica» sui corpi delle donne indigene, in Dell’Oro, della possibilità di fare della scrittura il luogo nel quale si congiungono «l’idea della fuga e la speranza del ritorno» in un paese, la Somalia, che non esite più, o meglio esiste perché immaginato, ricostruito nelle memorie, nei desideri e nelle speranze.
Nella difficile elaborazione di una solida base di metodo per una ricerca storica che scandaglia tracce e memorie entro universivi narrativi, Proglio individua nella diaspora ebraica una possibile metafora, un modello che vale anche per altre diaspore e si avventura nell’ultimo capitolo nella ricostruzione del racconto della diaspora somala. Ai testi letterari si rivolge per «sintetizzare i frammenti di memoria, per ricostruire un collage disperso in tutto il mondo». Proglio tenta di raccontare la diaspora somala immergendosi nelle difficoltà e nelle contraddizioni che, insieme ad altre scrittrici e scrittori, Nurrudin Farah incontra nel proprio percorso di autore anche occidentale, che dell’Occidente utilizza per forza di cose categorie euristiche. Da queste letture Proglio trae molte consapevolezze – tra le quali il fatto che «Siad Barre si può considerare, a tutti gli effetti, una conseguenza indiretta del colonialismo italiano» -, e così il lettore del suo libro, immerso in una rete di memorie, storie, narrazioni che lo spingono a riposizionare se stesso, il proprio sapere e i presupposti stessi della conoscenza storica e letteraria. Concludendo, non resta dunque che la formulazione di un auspicio, quello che si moltiplichino letture come quella di Proglio sia sul versante degli studi storici, sia su quello degli studi letterari (antroplogici, sociologici, etc.) per dare vita a una contaminazione di discipline capace di cogliere l’urgenza del presente.

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