Questo movimento chiede democrazia e pluralismo. La rivolta non ha sbocchi perché manca un partito rivoluzionario. Meglio la disobbedienza civile. Come al teatro Valle
Questo movimento chiede democrazia e pluralismo. La rivolta non ha sbocchi perché manca un partito rivoluzionario. Meglio la disobbedienza civile. Come al teatro Valle
L’esito della manifestazione del 15 ottobre, con l’avvilente ma prevedibile spaccatura tra una maggioranza pacifista e una minoranza militarizzata, dovrebbe spingerci a riproporre un interrogativo che, nella sinistra radicale, è in sospeso da almeno quarant’anni. L’interrogativo è: in che cosa consiste, o può consistere, una politica extra-parlamentare? Con questa espressione non intendo semplicemente una prassi politica situata al di fuori delle aule parlamentari, come possono esserlo una manifestazione, uno sciopero o un’assemblea sindacale. Espressioni politiche di questo genere sono previste anche in un quadro del tutto tradizionale. Si tratta però, in questi casi, di iniziative politiche che affiancano e sostengono la prassi parlamentare, sul presupposto più o meno esplicito che la parola decisiva spetti comunque, alla fine, alla dialettica tra i partiti e alle alternanze di governo. Viceversa, una politica extraparlamentare in senso stretto è definita dalla convinzione programmatica che il nocciolo della decisione politica sia tale da non poter essere affatto demandato alla dinamica parlamentare – almeno in una certa situazione data – non per un qualche accidente passeggero, ma per i limiti intrinseci della democrazia rappresentativa; che, quindi, la mobilitazione diretta dei singoli non vada intesa come segnale o stimolo, ma come alternativa pura e semplice all’azione dei loro presunti rappresentanti. Ora, per tornare alla manifestazione del 15, credo che sulla necessità di un’azione extra-parlamentare intesa in questo senso stretto fossero d’accordo tutti i partecipanti, sia i “buoni” che i “cattivi”. Per di più, in una fase di crisi della rappresentanza così acuta come quella dell’attuale governo Scilipoti, c’è da supporre che una tale necessità sia condivisa, nel profondo, da ampie fasce della società civile, compresi settori e soggetti decisamente estranei a suggestioni rivoluzionarie. Il problema cruciale, però, è che – almeno nella cultura politica italiana – si direbbe che una prassi politica extra-parlamentare non disponga che di un unico modello, destinato a riproporsi puntualmente, intatto e immutabile, quali che siano le circostanze e le trasformazioni della storia. Detto in breve, è il modello dell’insurrezione, articolato nei tre movimenti classici della rivolta armata, lo scontro militare, la presa del potere.
Per capirci, facciamo un passo indietro di qualche decennio e torniamo alla sinistra extra-parlamentare per antonomasia: quella dei gruppi come Lotta continua o Avanguardia operaia che vissero la loro breve ma intensa stagione a ridosso dei movimenti degli anni Settanta. Qui il termine “extra-parlamentare” è più o meno sinonimo di “rivoluzionario”, e in questa forma viene declinato dalle tante organizzazioni che si candidano a sostituire il Pci alla testa delle masse, con l’esplicito programma di guidarne la rivolta. Basta poco, oggi, per capire che uno schema così semplicistico ignorava praticamente tutto ciò che di veramente nuovo e duraturo i movimenti avessero prodotto in quel decennio. Di sicuro l’antiautoritarismo, le battaglie civili sul divorzio e l’aborto, il rifiuto del lavoro salariato o il femminismo furono, senza eccezioni, pratiche extraparlamentari in senso stretto, situate immediatamente sul terreno della vita individuale, dove non è previsto un meccanismo di rappresentanza. Ma queste politiche della vita avevano ben poco a che fare col vecchio canovaccio della presa del potere. Resta il fatto che fu quel canovaccio, riduttivo fino alla parodia, quello con cui le componenti organizzate del movimento scelsero di raccontarsi. Di qui, qualche anno dopo, la loro incapacità di contrastare il partito della P38, che in fondo si limitava a voler realizzare nei fatti, con stolida coerenza, quella rivolta armata che gli altri avevano invocato a parole per quasi dieci anni.
Tornando ora al presente, nella speranza che non si riproduca il medesimo stallo, è il caso intanto di osservare che il discrimine davvero decisivo, nei movimenti di questi anni, non è il tema della violenza in quanto tale, e che la distinzione cara ai media tra i bravi ragazzi e i cattivi teppisti aiuta poco a chiarire le cose. La simpatia generale per la primavera araba non è certo turbata dall’ovvietà che, in molti casi, i manifestanti fossero armati, e un paio di bancomat presi a bastonate non sarebbero una tragedia, se questo servisse davvero a mitigare le disuguaglianze indotte dalla crisi. Il problema con i black bloc, insomma, non è il fatto che siano cattivi, ma il fatto che hanno torto. E hanno torto per due ordini di motivi: perché, oggi più che mai, la loro idea di insurrezione è un modello del tutto inadeguato alla realtà dei movimenti; e perché si tratta di un modello semplicemente perdente. È inadeguato, in primo luogo, perché la democrazia e il pluralismo sono oggi le istanze basilari della politica extraparlamentare: a spingere gli indignati nelle piazze non è la diffidenza verso questi principi politici moderni ma, al contrario, la volontà di imporne una realizzazione piena, senza trucchi e compromessi. E l’esperienza insegna che democrazia e pluralismo sono poco compatibili con il rigore militare di una guerra civile, in cui un minimo dissenso può bastare a fare di un alleato un nemico. E si tratta di un modello perdente perché, come si diceva un tempo, per fare una rivoluzione occorre un partito rivoluzionario. Si prendano due esempi opposti come la rivoluzione russa e quella iraniana. In entrambi i casi, nelle fasi iniziali dell’insurrezione, bolscevichi e kohmeinisti erano solo una minoranza ben organizzata. A spianargli la strada del potere fu il fatto che entrambi, a torto o a ragione, avessero fin da principio un’idea assolutamente chiara del tipo di stato che intendevano costruire. Si immagini ora di porre a un nerovestito nostrano la fatidica domanda sul “che fare”: arrestare il processo di unificazione europea o rilanciarlo sul piano politico? Facilitare l’accesso al credito o lasciar fallire le banche? Nazionalizzare o liberalizzare? Non avrebbe risposte, come non ne abbiamo noi. L’incertezza diffusa, in questa fase, non è nemmeno necessariamente un fattore negativo: può essere un elemento di vitalità e una sfida all’immaginazione. In ogni caso, è incompatibile con il modello rivoluzionario di altri tempi. Se mai le proteste di piazza arrivassero, in Grecia o in Italia, ad abbattere la democrazia parlamentare (cosa non impossibile, data la fragilità delle istituzioni) non sarebbero i duri del movimento a trarne beneficio, ma qualche soggetto politico più sbrigativo, il cui primo impegno sarebbe di liquidare loro e noi. In Italia, si sa, i candidati non mancano.
Veniamo allora, finalmente, alla domanda di partenza: che cosa può essere una politica extra-parlamentare che non voglia ripetere fuori tempo massimo il copione dell’insurrezione? L’unico altro modello disponibile, per quanto ne so, è quello della disobbedienza civile, che ha ispirato a suo tempo la rivolta contro la guerra in Vietnam e, successivamente, tutti i movimenti per la pace o per la difesa dell’ambiente. In questi casi una norma dello Stato è apertamente trasgredita, perché si ritiene che essa violi i principi generali su cui è basato il vivere civile. Si capisce che, in questa forma classica, questo tipo di prassi è plausibile solo in casi estremi, quando ha senso il richiamo a una “giustizia superiore”. C’è un aspetto, però, di questo modello che ha una portata molto più generale: il fatto cioè che si intervenga in modo circoscritto su un singolo tema politico e che, in questa dimensione circoscritta, si sospenda, letteralmente, la norma ufficiale, per sostituirla con una regolamentazione alternativa che entra in vigore di fatto. La protesta, insomma, diventa immediatamente iniziativa. È una descrizione che si adatta bene, credo, a tutte le iniziative politiche davvero innovative di questi anni. Si prenda il caso, recentissimo, dell’occupazione del teatro Valle. La sfida o il paradosso, in questo caso, è che l’unica realtà teatrale di ricerca, in tutta Roma, si stia realizzando non con il contributo di una legge o di un decreto, ma attraverso la loro sospensione. Non si è “preso” il potere, insomma: se ne è esibita la vacuità.
Nessuno, oggi, è in grado di sapere se una prassi extra-parlamentare di questo genere potrà davvero rispondere alle sfide dettate dalla crisi. Non sarà, in ogni caso, né una passeggiata né un pranzo di gala. Di sicuro, però, avremo tante più probabilità di successo quanto più in fretta ci libereremo delle scorie e dei fantasmi del passato.
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