Ancora una volta le violenze di una minoranza dei manifestanti hanno oscurato le ragioni di una protesta che è segno di un disagio concreto e preoccupante. Proviamo allora a riflettere sulle prospettive di un movimento che rappresenta la prima grande risposta popolare su scala globale alla crisi economica scoppiata nel 2007/2008.


Intervista a Emiliano Brancaccio ">

I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento. Intervista a Emiliano Brancaccio

Ancora una volta le violenze di una minoranza dei manifestanti hanno oscurato le ragioni di una protesta che è segno di un disagio concreto e preoccupante. Proviamo allora a riflettere sulle prospettive di un movimento che rappresenta la prima grande risposta popolare su scala globale alla crisi economica scoppiata nel 2007/2008.

Intervista a Emiliano Brancaccio

Ancora una volta le violenze di una minoranza dei manifestanti hanno oscurato le ragioni di una protesta che è segno di un disagio concreto e preoccupante. Proviamo allora a riflettere sulle prospettive di un movimento che rappresenta la prima grande risposta popolare su scala globale alla crisi economica scoppiata nel 2007/2008.

Intervista a Emiliano Brancaccio
Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli “indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008 e l’assenza di risposte all’altezza della gravità della situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata sull’economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.

Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione etico-normativa su “violenza” e “non violenza”. Se ne sono fatte tante, in passato, e mi pare che non abbiano mai inciso sul corso effettivo degli eventi. Preferisco analizzare le dinamiche del processo storico, di cui gli scontri di Roma, così come quelli di Atene, indubbiamente fanno parte, che ci piaccia o meno.
Rilevo nei “demolitori” di piazza san Giovanni una qualità superficiale e un limite di fondo. La qualità sta nella rapidità. L’onda di una rivolta distruttiva cresce in Europa ogni giorno, con accelerazioni improvvise. E’ interessante notare che, sul piano strettamente visivo, questi “riots”, queste azioni rivoltose, sembrano le uniche in grado di colpire alla stessa velocità dei famigerati mercati finanziari. In termini puramente simbolici, le fulminee azioni della guerriglia urbana danno cioè l’illusione di essere le uniche capaci di tener testa al ritmo forsennato della speculazione finanziaria, che abbatte i prezzi dei titoli, aumenta i tassi d’interesse e offre un alibi ai governi che colpiscono il welfare e il lavoro. Potremmo dire, insomma, che a un primo sguardo i “demolitori” sembrano i soli in grado di “colpire veloci” come gli speculatori.

Ma anche prescindendo da considerazioni di carattere – come lei le ha definite – “etico-normativo”, non pare che queste azioni abbiano alcuna efficacia politica al di là dello sfogo di un pomeriggio…
Infatti la qualità cui ho fatto cenno è apparente, del tutto illusoria, puramente coreografica. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che essa risalta di fronte all’affanno dei tradizionali movimenti di massa e ancor più delle istituzioni politiche. Quando i “demolitori” dichiarano: «volevano farsi il solito, inutile comizio e invece hanno avuto una bella sorpresa», è chiaro che intendono sfidare una politica tradizionale che arranca paurosamente, che giunge sempre in ritardo sui luoghi in cui si consumano i delitti politici del nostro tempo. E’ questo spaventoso ritardo che spiega le simpatie, più o meno nascoste, che un numero non trascurabile di persone, e di lavoratori, esprime oggi nei confronti dei “demolitori” di piazza San Giovanni.

E quale sarebbe invece il limite dei “demolitori”?
Un limite gigantesco. Essi sono palesemente incapaci di cogliere il senso profondo delle dinamiche in corso, e sono per questo totalmente privi di una piattaforma politica. Nella migliore delle ipotesi, senza esserne nemmeno consapevoli, i “demolitori” attingono da un miscuglio di vecchie parole d’ordine del più ingenuo proudhonismo e da un’apologia dell’azione in sé che ha molti padri spirituali, ad esempio nel dadaismo ma anche nel primissimo fascismo. Definirli anarchici è già alquanto lusinghiero. Il problema è che i verdetti della Storia su questo tipo di movimenti sono inequivocabili. Le forme ingenue di ribellione possono condurre alla distruzione di macchine e di simboli, religiosi e non, possono mandare all’ospedale qualche malcapitato agente di polizia, e possono anche arrivare a lasciare dei morti ammazzati per strada. In questo modo riescono facilmente a conquistare le scene di un mondo mediatizzato. Ma, restando confinate nell’ambito effimero della coreografia, sia pure magari insanguinata, esse risultano politicamente insulse. La mera rivolta, il cosiddetto “riot”, se rimangono tali sono classificabili come eventi di fatto innocui, che si verificano molto più spesso di quanto si immagini e che non scalfiscono mai il potere. Anzi, in genere creano le tipiche condizioni per la più agevole delle reazioni da parte degli apparati repressivi dello stato e offrono l’occasione per una svolta di tipo più o meno surrettiziamente autoritario.

E’ quello a cui stiamo assistendo in queste ore. Peraltro le polemiche sugli scontri hanno completamente oscurato tutto il resto, compreso il dibattito sulla piattaforma politica del movimento nel suo complesso. Ma è possibile definire almeno quella proveniente dalla “parte pacifica”?
Occorre ammettere che, sul piano dell’analisi e della proposta politica, anche la parte cosiddetta “pacifica” del movimento appare in enorme difficoltà. Consideriamo ad esempio la declamata categoria dei “beni comuni”, che dovrebbero caratterizzarsi per il fatto di poter esser gestiti collettivamente senza la mediazione né mercato né dello stato. Nella definizione scientifica originaria il concetto descrive una forma di organizzazione delle relazioni economiche precisa ma con applicazioni decisamente limitate. Invece, nel senso in cui viene adoperata all’interno dei movimenti, l’espressione “beni comuni” costituisce una espressione equivoca, che in quanto tale significa tutto e niente. La sua ambiguità, si badi, non è casuale. Essa deriva dal fatto che alcune teste pensanti del movimento si illudono, attraverso di essa, di promuovere la nascita di un modo generale di produzione sociale che sia immediatamente “altro” rispetto allo stato e al mercato. Letti in quest’ottica i “beni comuni” rischiano dunque di assumere i tratti di una chimera inutile e fuorviante. Non è un caso che i marxisti e i veri protagonisti del movimento operaio novecentesco non si sono mai lasciati sedurre da simili illusioni: per loro, il primo problema è sempre consistito nella presa – graduale o rivoluzionaria – del potere statale, nell’uso delle leve dello stato per la socializzazione della produzione e nella progressiva democratizzazione delle decisioni economiche. Ed anche oggi, quello della presa delle “casematte” dello stato resta la questione chiave. Il resto è solo fuffa.

Il movimento però invoca anche il “ripudio del debito”.
Qui la questione è un po’ diversa. Contrariamente a quel che si pensa, non si tratta di una proposta utopica: la stessa storia del capitalismo è costellata di fallimenti di stati sovrani. Il problema è che bisognerebbe poi avere ben presenti le conseguenze di un simile atto.

Infatti l’obiezione più comune è che un “ripudio del debito” implicherebbe un crollo dell’intero sistema finanziario, con ripercussioni sociali peggiori di quelle che già si registrano.
In realtà la questione preliminare è un altra. Rifiutarsi unilateralmente di pagare il debito implica poi la capacità, da parte di un paese o di un aggregato di paesi, di fare a meno dei prestiti esteri per un lungo periodo. E’ chiaro infatti che se si cancella il debito con una mano e poi si chiede un nuovo prestito con l’altra, si subirà la logica rappresaglia di un feroce aumento dei tassi d’interesse e di un fatale razionamento dei finanziamenti da parte dei creditori esteri. Per fare a meno dei prestiti, allora, bisognerebbe pianificare una strategia di politica economica che consenta di diminuire le importazioni e, più in generale, che persegua l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese dai movimenti internazionali di capitali e di merci. Si tratta chiaramente di una linea che affiderebbe di nuovo un ruolo forte allo stato nazionale, o a una comunità di stati che puntino a una politica economica più autonoma rispetto alle leggi impersonali della cosiddetta globalizzazione capitalistica. In questo scenario anche l’instabilità finanziaria che consegue a un default potrebbe essere gestita, sottoponendo la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi, e magari nazionalizzando parte del sistema bancario. Sono queste del resto le soluzioni che in genere hanno tipicamente fatto seguito a un default sovrano.

Non mi pare che sia questo l’orizzonte entro cui si muovano i sostenitori del ripudio del debito.
Alcuni promotori del “ripudio del debito” sono in imbarazzo di fronte a queste logiche conseguenze del loro slogan. Il motivo è che essi hanno per anni proclamato la morte degli stati nazionali, lo hanno fatto persino con più veemenza dei cosiddetti liberisti. Per questo tali esponenti del movimento oggi non appaiono in grado di trarre dalla parola d’ordine del ripudio unilaterale del debito una precisa conseguenza sul piano politico: quella del ripristino di una idea di sovranità dello stato, o di un gruppo coeso di stati, rispetto ai meccanismi del mercato globale. Sembra che io stia facendo un discorso troppo alto, ma non lo è: il popolo annusa l’aria, e comprende subito se una proposta abbia un senso logico e conduca a qualcosa, oppure sia intrinsecamente contraddittoria e porti in un vicolo cieco. Anche per queste incertezze, per queste fragilità insite negli slogan della parte cosiddetta “pacifica” del movimento, i “demolitori” prendono agevolmente il sopravvento.

Al di là della perseguibilità “tecnica” del percorso che lei ha appena delineato, c’è tuttavia un punto politico dal quale non si può prescindere: quali sarebbero gli alleati di un simile progetto? Il rifiuto del debito è attualmente una parola d’ordine di poche frange marginali dell’estrema sinistra. E per fare cose tipo “sottoporre la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi” ci vorrebbe di fatto un “governo rivoluzionario continentale”. Sinceramente non mi pare una ipotesi realistica.

Francamente non scomoderei la parola “rivoluzione”, che oggi mi pare un po’ abusata. Del resto, prima del famigerato “divorzio” dal Tesoro, anche Bankitalia era sottoposta a un controllo di quel tipo, e non mi pare che all’epoca i cavalli dei cosacchi si abbeverassero a San Pietro. Ad ogni modo, qui dobbiamo intenderci su un fatto: l’agenda politica corrente, intorno alla quale le istituzioni europee, i governi e le stesse opposizioni si affannano, è essa stessa auto-contraddittoria. Se in Europa insisteremo con le cosiddette politiche di “austerità”, la domanda di merci, la produzione, l’occupazione, i redditi e quindi anche le entrate fiscali si ridurranno ulteriormente, per cui diventerà sempre più difficile rimborsare i debiti. In questo modo, anziché contrastare la speculazione finanziaria, si finirà per alimentarla. Teniamo presente che proprio a causa di tali politiche la Grecia è già tecnicamente fallita. Proseguendo lungo questa via anche l’Italia, il Portogallo e la Spagna finiranno per incamminarsi verso un inesorabile default. Non solo: il ripudio del debito, in quanto tale, potrebbe rivelarsi persino insufficiente. I paesi in default potrebbero infatti vedersi costretti anche a uscire dalla zona euro e svalutare, per tentare di accrescere la competitività verso l’estero e interrompere il declino della domanda e della produzione. Insomma, gli eventi potrebbero a un certo punto correre più veloci sia dell’agenda politica istituzionale che degli stessi slogan di movimento. Non sarebbe la prima volta.

L’ipotesi di una uscita dalla zona euro è una prospettiva concreta. Ma ha senso sul piano politico? Lei si limita a prevederne la possibilità o crede che gli stessi movimenti e partiti di sinistra – sopraggiunte determinate condizioni – dovrebbero sostenerla attivamente?

L’uscita dalla zona euro può risultare a un certo punto una necessità oggettiva. Ma da qui a ritenerla vantaggiosa ce ne passa, soprattutto se esaminiamo il problema dal punto di vista dei lavoratori. Ricordiamo cosa avvenne nel 1992, durante una crisi per più di un verso simile a quella attuale. Sotto l’attacco della speculazione, il governo italiano attuò prima una serie di pesanti politiche di austerità, che non calmarono i mercati. Quindi decise di sganciare la lira dal cambio fisso con il marco. Tuttavia, per impedire che la svalutazione della lira e il conseguente aumento del prezzo delle merci importate scatenassero una rincorsa salariale, i sindacati furono chiamati a firmare un accordo sul costo del lavoro molto vincolante. I lavoratori pagarono così due volte: a causa delle politiche di austerità e poi a seguito del freno imposto ai salari. Ci sono motivi per ritenere che oggi potremmo assistere a una riproposizione di quel copione, con effetti ancor più drammatici sulla stessa funzione del sindacato, che verrebbe ulteriormente compromessa. Gli economisti di sinistra che oggi invocano lo sganciamento dall’euro dovrebbero fare più attenzione a questi rischi.

Ma allora, quale potrebbe essere un programma politico in grado realisticamente di tutelare il welfare e di difendere gli interessi del lavoro?

La visione dominante contrappone il salvataggio della zona euro agli interessi dei lavoratori: il messaggio è che se vogliamo la prima occorre sacrificare i secondi. Ma questa è una lettura ideologica dei fatti. E’ necessario quindi mettere preliminarmente in chiaro che la salvezza della unità europea e la salvaguardia degli interessi del lavoro sono obiettivi coincidenti. Il regime di accumulazione del capitale fondato sulla finanza privata è infatti entrato in crisi. Siamo di fronte a una occasione storica per la costruzione di un nuovo e diverso regime di sviluppo. Per edificarlo, occorre in primo luogo che l’autorità pubblica abbandoni il ruolo ancillare di prestatore di ultima istanza del capitale privato, e si faccia invece creatrice di prima istanza di nuova occupazione. Di prima istanza, si badi, e cioè non per mera assistenza, ma per la produzione di quei “beni base” la cui messa in opera risulta fondamentale per il progresso sociale e civile dell’umanità ma le cui implicazioni tipicamente sfuggono alla logica ristretta dell’impresa capitalistica privata. Questa sorta di versione moderna della pianificazione pubblica rappresenta, allo stato dei fatti, il solo modo razionale che abbiamo per attivare un nuovo motore “interno” dello sviluppo economico europeo, senza il quale l’Unione stessa rischia di implodere. In secondo luogo, bisogna introdurre nuovi strumenti di gestione dei rapporti conflittuali tra gli stati membri dell’Unione e tra le classi sociali. Un esempio tra i tanti è lo “standard retributivo europeo”, che consentirebbe di interrompere la competizione salariale in atto tra i paesi dell’Unione. Sia pure in forma blanda e in estremo ritardo, di questi strumenti si inizia a discutere anche in seno ai partiti socialisti europei. Limitarsi però a invocare queste ricette è del tutto inutile se la Germania si mette di traverso.

Ma i tedeschi non sarebbero essi stessi danneggiati da una crisi della zona euro?
Un eventuale ripudio del debito e una serie di svalutazioni competitive da parte dei paesi periferici indubbiamente darebbero dei problemi alle banche e alle imprese tedesche. Tuttavia in Germania queste eventualità sono già state ampiamente messe in conto, e non fanno più un grande effetto. Non è questione soltanto di una deriva populista tra i tedeschi. Ci sono anche motivazioni razionali che spiegano questa crescente indifferenza ai destini dell’eurozona. A questo riguardo, mi pare che si dimentichi che, in caso di fallimenti a catena dei debiti sovrani europei, il sistema bancario tedesco ne uscirebbe in ultima istanza comunque meno peggio di altri. Inoltre, le svalutazioni ridurrebbero il valore dei capitali dei paesi periferici, e quindi darebbero ai capitali tedeschi l’occasione per fare shopping a buon mercato. Insomma, l’ipotesi di deflagrazione della zona euro non suscita più grandissimi timori e potrebbe trovare persino delle giustificazioni logiche, in Germania.

E allora come si possono smuovere i tedeschi dalle loro posizioni?
Occorre agire dialetticamente. Bisogna mettere in chiaro che se in Germania dovesse prevalere la volontà di abbandonare i paesi periferici al loro destino, allora non sarà soltanto la moneta unica a saltare, ma si finirà per mettere in discussione anche il mercato unico europeo e la relativa libera circolazione dei capitali, e al limite delle stesse merci. I tedeschi debbono cioè comprendere che se intendono assistere indifferenti alla deflagrazione della zona euro, i paesi periferici potrebbero reagire imponendo restrizioni ai movimenti di capitali e di merci. Mi rendo conto che si tratta di una linea difficile da praticare, soprattutto per i partiti e per i movimenti di sinistra, che in questi anni sono stati tra i più subalterni all’ideologia dominante della globalizzazione capitalistica. Ma se in questa fase vuol davvero fare politica, occorre che la sinistra politica e di movimento agisca su due fronti: da un lato proporre soluzioni per rafforzare l’unità europea ma, dall’altro lato, minacciare l’introduzione di vincoli alla libera circolazione dei capitali e delle merci nel caso in cui l’eurozona esplodesse. In fondo, si tratta anche di una linea d’azione uguale e contraria a quella delle destre populiste, che per anni hanno preteso di affrontare le crisi con la rozza ricetta dei vincoli alla libera circolazione dei lavoratori.

Tornando alla giornata di sabato, c’è dunque una lezione che lei crede si possa trarre da ciò che è avvenuto?
Direi di sì, una duplice lezione. In primo luogo, se si vuole evitare di cadere nella classica spirale perversa del “riots” e della reazione, occorre che da domani le piattaforme politiche siano più chiare, che la tattica e la strategia siano definite, che i programmi politici siano privi di ambiguità: a partire dalla proposta di restare o meno nella attuale zona euro, sotto quali condizioni, con quali proposte di sviluppo economico e di riequilibrio tra gli stati e tra le classi sociali, e soprattutto a fronte di quali possibili alternative. In secondo luogo, occorre prendere coscienza che la politica non può continuare ad arrancare dietro i mercati finanziari ma deve finalmente anticiparli, prevenirli. La politica, a cominciare dalla politica monetaria della banca centrale, può battere la speculazione. Se non si affrontano a viso aperto questi problemi, di merito e di rapidità dell’azione, ci attenderà una vana sequenza di spettacolari ma inutili azioni di “guerriglia demolitrice” e di immancabili azioni repressive da parte dello stato. E intanto continueremo ad assistere alla scena, un po’ surreale, di banchieri centrali che spediscono lettere di “commissariamento” ai governi e poi maldestramente ammiccano alla protesta giovanile.

La lettera di Trichet e Draghi cui lei ha appena fatto riferimento è stata una delle micce che qui in Italia hanno innescato le proteste. Criticarla è tanto più opportuno quanto più, anche nella sinistra riformista, cresce la tentazione di farne la piattaforma politica di base di un eventuale governo postberlusconiano. Ma Trichet è anche colui che ha imposto alla Germania – ai suoi governanti come ai suoi rappresentanti nel consiglio direttivo della Bce – la politica di sostegno ai titoli del debito pubblico (inclusi quelli italiani). Quella lettera può essere letta come il certificato di ortodossia da esibire di fronte ai tedeschi per proseguire con queste misure certamente non in linea con la filosofia ispiratrice della Banca centrale europea. Insomma, prendendosela con Trichet e Draghi non si rischia di puntare il dito contro le colombe anziché contro i falchi dell’austerity europea?
Trichet ha fatto il minimo indispensabile per salvare la zona euro. Se non avesse agito a tutela dei paesi periferici, la moneta unica sarebbe probabilmente già morta e sepolta. Draghi deve ancora dare prova di sé, a questo riguardo. L’occasione per valutarlo non mancherà. Presto potrebbe scoccare la cosiddetta “ora x” sui mercati finanziari, cioè potrebbe essere sferrato un poderoso attacco speculativo alla zona euro. A quel punto tutto dipenderà dalla disponibilità o meno di Draghi e degli altri membri del consiglio direttivo della Bce di rispondere all’attacco con fermezza, in modo da dare alle istituzioni politiche il tempo di attivare il “motore interno” dello sviluppo di cui l’Europa unita ha assoluto bisogno per sopravvivere. La banca centrale ha tutti gli strumenti per dominare la “bestia” della speculazione. Bisognerà capire se ne avrà la volontà. Con il dovuto rispetto, dunque, suggerirei al nuovo Presidente della Bce di rispondere da ora in poi solo con i fatti alle montanti proteste sociali. Del resto, solo per i fatti egli verrà giudicato.

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