Ilgiovane Gramsci contro la democrazia

«È la nostra peggior nemica», scrisse sull’«Avanti!» Preferiva il liberalismo proprio perché borghese

«È la nostra peggior nemica», scrisse sull’«Avanti!» Preferiva il liberalismo proprio perché borghese

Alla fine di giugno del 1911, Antonio Gramsci prende la licenza liceale a Cagliari. A ottobre si trasferisce a Torino, dove si iscrive all’università. I suoi studi (aveva dato meno della metà degli esami previsti) si interromperanno nella primavera del 1915, al momento in cui decide di dedicarsi a tempo pieno alla politica. Ma la decisione di iscriversi al Partito socialista italiano l’aveva maturata già alla fine del 1913. Il suo più grande amico all’epoca è Angelo Tasca, a fianco del quale vivrà l’intera stagione iniziale della sua vita, dall’esperienza socialista a quella comunista. La sua prima uscita pubblica, sul settimanale «Il Grido del popolo», è però di critica a Tasca per aver, quest’ultimo, condannato con toni eccessivamente radicali la svolta interventista di Benito Mussolini (ottobre 1914). A suo avviso Mussolini non ha torto, dal momento che la politica di preparazione rivoluzionaria del proletariato può trarre vantaggio dall’intervento italiano nella guerra contro gli Imperi centrali. Successivamente sarà tentato di collaborare al «Popolo d’Italia», il nuovo giornale di Mussolini, ciò che gli verrà rinfacciato — dal sindacalista Mario Guarnieri — nel 1921, al momento della fondazione del Partito comunista.

Un curioso debutto, su cui si sofferma Leonardo Rapone nel capitolo iniziale di Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), un grande studio sulla formazione del leader comunista che Carocci manderà a giorni in libreria. Rapone sostiene che considerare quella presa di posizione filomussoliniana di Gramsci come un «mero incidente di percorso» o «un’acerba esercitazione giovanile» è un modo di far torto alla sua già complessa personalità degli inizi.

Quel Gramsci ai primordi è un ragazzo colto, che interviene in tutti i dibattiti dell’epoca. Condanna come «intorbidante» l’anticlericalismo dell’«Asino» di Guido Podrecca, saluta con entusiasmo la beatificazione di Giuseppe Benedetto Cottolengo. Combatte alcune sue piccole e grandi battaglie contro i gesuiti, contro la massoneria (ma nel ’24, con l’unico discorso che tenne a Montecitorio da deputato comunista, si pronuncerà contro il decreto mussoliniano di messa fuori legge della stessa), contro la bestemmia, contro il commercio al minuto («medievalismo economico»). Si pronuncia contro l’adozione dell’esperanto come lingua unica che, secondo i suoi compagni di partito, dovrebbe giovare alla comprensione tra i popoli. Si schiera contro il gioco del lotto. A favore del calcio («Un modello della società individualistica, vi si esercita l’iniziativa ma essa è definita dalla legge»). A favore dello scoutismo «officina del carattere», ma solo nella versione inglese di sir Robert Baden-Powell. Più in generale è affascinato da tutto ciò che riguarda l’Inghilterra. Nello stesso tempo disprezza la borghesia italiana «arruffona, senza una cultura, senza una idealità» così come da una celebre lettera di Engels a Turati del 1894.

Ha in grande antipatia i socialisti riformisti: Claudio Treves, Filippo Turati. È, invece, un grande ammiratore di Gaetano Salvemini, lettore della sua rivista «L’Unità», e fa parte del gruppo di giovani socialisti che nel ’14 gli propongono di candidarsi come indipendente nel Psi, partito che aveva lasciato polemicamente qualche anno prima. Lo è ancor più di Giovanni Amendola, del quale apprezza i toni di deprecazione («L’Italia come oggi è, non ci piace», aveva scritto Amendola su «La Voce» nel dicembre del 1910). Stima Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Ma apprezza anche Giovanni Gentile, al quale, quando l’Università di Torino nel 1914 gli negherà la cattedra di Storia della filosofia, lui e Tasca faranno giungere, tramite il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, un’affettuosa lettera di solidarietà. E, in modi ancor più espliciti, mostra interesse nei confronti di Benedetto Croce. Approva Francesco De Sanctis per aver denunciato alcuni aspetti negativi del carattere italiano: «l’insincerità», «il fare e non fare, il permettere e non permettere», «l’ipocrisia nei rapporti tra singolo e collettività… tra singolo e singolo», «quello stare in sull’ambiguo e tenersi nel mezzo e lasciarsi dietro l’uscita». Sulla scia di Bertrando Spaventa, si dichiara antipatizzante di Giuseppe Mazzini, al quale imputa l’astrattismo delle idee democratiche.

Un segno particolare della subalternità di Gramsci alla cultura del suo tempo — messa in evidenza per primo da Eugenio Garin — è riscontrabile nell’adesione del giovane socialista sardo alla campagna (di Salvemini, Prezzolini, Papini, Amendola e del «Corriere della Sera») contro Giovanni Giolitti. Il rigetto di Gramsci nei confronti della politica di Giolitti, fa notare Rapone, «non è semplicemente il frutto della critica del decennio giolittiano da parte di un socialista profondamente calato, come è Gramsci, nel nuovo spirito intransigente del socialismo italiano affermatosi al congresso di Reggio Emilia del 1912, in rotta con il riformismo filogiolittiano del periodo precedente». Per lui Giolitti è il simbolo di tutto ciò che testimonia della corruzione dell’organismo nazionale e che fa diversa l’Italia da un vero Stato liberale. «Il giolittismo», afferma, «è la marca politica del decimo sommerso italiano: l’insincerità, l’affarismo, il liberalismo clericale, il liberalismo protezionistico, il liberalismo burocratico e regionalista».

Le modalità della sua invettiva contro Giolitti diventeranno uno schema che si ripresenterà più volte, anche dopo la sua morte e quando di Giolitti si sarà quasi persa memoria, per tutto il Novecento: ottimo era il «liberalismo autentico» di Cavour; pessimo quello dei «tempi in cui viviamo», in un’Italia nella quale i liberali «hanno preferito mandare Cavour in soffitta» e «i partiti politici non perseguono programmi di politica generale, ma seguono singoli individui, i “cacicchi”, come li chiamano in Ispagna». Anche lui, sulla scia del direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini, prenderà l’abitudine di qualificare il metodo di governo di Giolitti come una «dittatura». E ancora nel 1917, quando tra i socialisti si fa largo la tentazione di accogliere le avances di Giolitti per dar vita ad un governo «migliore» che prepari «le condizioni più favorevoli di vita e di sviluppo della classe operaia», Gramsci indica quello statista come «il pericolo maggiore da combattere per i socialisti» e lo definisce «un avversario, forse, in questo momento, il più temibile degli avversari». Nell’urto assai forte con il giolittismo, fa notare Rapone, «resta, malgrado le analogie verbali, una fondamentale diversità di ispirazione, e non solo per l’ovvia ragione che si trattava di antigiolittismi che muovevano da fronti politici opposti, ma per il diverso rapporto che dalle due parti si istituiva tra Giolitti e il liberalismo: se per la frizzante intellettualità borghese Giolitti era il simbolo dello scivolamento del liberalismo verso la democrazia, qui stava l’origine della sua funzione corruttrice e da qui veniva ammonimento a stringere piuttosto che ad allargare le maglie della concezione liberale, per Gramsci Giolitti, semplicemente, nulla aveva a che vedere con il vero liberalismo e ne faceva rimpiangere l’assenza in Italia». «I liberali in Italia sono soltanto uno scherzo di cattivo genere. Essi non si distinguono in nulla dalle altre correnti sociali; politicamente valgono zero», scrive. Quanto a Giolitti, «in concreto ha sempre voluto dire: protezione doganale, accentramento statale con la tirannia burocratica, corruzione del Parlamento, favori al clero e alle caste privilegiate, schioppettate sulle strade contro gli scioperanti, mazzieri elettorali». Nessuna indulgenza per le aperture di Giolitti al riformismo socialista. Anzi: il suo è «un programma di trasformismo, di confusionismo delle forze politiche italiane». L’uomo di Dronero «ha dato sempre all’Italia i peggiori dei governi, i più truffaldini dei governi». Ma il vero bersaglio polemico di Gramsci è la democrazia contrapposta al liberalismo, in particolare quello dell’esperienza storica inglese.

Pagine molto interessanti sono quelle dedicate dal libro di Rapone all’atteggiamento assai critico di Gramsci nei confronti della democrazia. Pagine che echeggiano quelle molto lucide scritte all’inizio degli anni Novanta da Luciano Cafagna in C’era una volta… Riflessioni sul comunismo italiano (Marsilio). E, in parte, anche quelle di Massimo Salvadori in Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi). «La democrazia è la nostra peggiore nemica, è quella con la quale dobbiamo sempre essere pronti a fare a pugni, perché intorbida il limpido distacco delle classi, e vorrebbe quasi diventare le molle della carrozza che servono a far pesar meno sulle ruote il carico dei passeggeri e ad evitare gli scossoni che possono far ribaltare», sentenzia Gramsci sull’«Avanti!» nel febbraio del 1916.

È un Gramsci che appare in sintonia con Georges Sorel, il quale nella democrazia aveva visto «all’opera lo spirito corruttore della pacificazione sociale» e l’aveva condannata per la sua «pretesa di attenuare la contrapposizione tra le classi e di temperare il conflitto con sdolcinatezze umanitarie e logiche di compromesso». Meglio, molto meglio il liberalismo. La diversità di trattamento riservata da Gramsci al liberalismo e alla democrazia riflette, secondo Rapone, la convinzione che mentre il liberalismo è dottrina francamente borghese e capitalistica, e come tale ben saldamente collocata sulla direttrice dello sviluppo storico, la democrazia, con la sua pretesa di porre la sovranità del popolo a fondamento dello Stato, è una maschera, un travisamento della realtà, perché i «fini essenziali» dello Stato sono «determinati dalla struttura economica della società»; la democrazia è perciò un’illusione e una fonte di illusioni, una capitolazione dell’intelligenza e dell’analisi storica davanti al sentimentalismo irriflessivo e passionale.

La democrazia, scriverà ancora Gramsci su «Il Grido del popolo» nell’ottobre del 1918, «esplica una funzione morbosa di confusionismo, di scrocco, di predicazione dell’incoerenza. È impaludamento, più che effettivo progresso». Parole che rimandano a Sorel, il quale per primo aveva usato l’espressione «pantano democratico». Ma richiami, diretti o indiretti, coinvolgono anche Benedetto Croce. L’imputazione alla democrazia del vizio dell’astrattismo politico, ad esempio, rimanda alla polemica crociana contro l’«assai sommaria cultura» dei democratici francesi e italiani. Rilievi che — sia per Croce che per Gramsci — vanno estesi alla massoneria. E al giacobinismo. Gramsci si mostra più che infastidito dai richiami ai «sacri principi dell’89», dal «feticismo sentimentale per il “popolo”», per le «gonfiezze» e le «prediche sociali» di Victor Hugo, per la raffigurazione della Grande rivoluzione nell’opera di Michelet. È sprezzante verso i politici repubblicani «ideologhi astratti, senza concretezza di pensiero politico». E, guardandosi indietro, giudica una tappa fondamentale dello sviluppo del socialismo in Italia l’emancipazione da quei blocchi «demo-massonici» nei quali, «durante l’età giolittiana, in occasione di elezioni amministrative, i socialisti si erano mescolati con gruppi e personalità della democrazia radicale e repubblicana, il più delle volte sotto l’egida di un accentuato anticlericalismo (altra manifestazione, quest’ultima, del confusionismo ideologico imperante tra i democratici)».

Per Gramsci la pienezza dello sviluppo borghese e capitalistico richiede una borghesia pienamente consapevole della sua funzione storica e determinata ad assolverla senza esitazioni; ma ha in più un contrassegno politico ideologico inequivocabile: «Quello di un compiuto e integrale liberalismo che, come mostra l’esempio del mondo anglosassone, crea l’ambiente più favorevole allo sviluppo della produzione e soprattutto lascia libero spazio al gioco delle classi».

Nell’individuazione del giacobinismo come sorgente inquinata del pensiero democratico si deve sottolineare, secondo Rapone, la sua insistenza sulle inclinazioni autoritarie connaturate a una concezione della storia e della politica come lotta per l’affermazione di valori assoluti e trascendenti. Sono temi su cui si è soffermato Vittore Collina nel saggio Giacobinismo e antigiacobinismo, pubblicato nel monumentale Gramsci. I Quaderni del carcere. Una riflessione politica incompiuta (Utet), a cura di Salvo Mastellone. «Giacobinismo?», si domanda Gramsci nel momento per lui più drammatico, quello in cui con un colpo di mano Lenin fa sciogliere l’Assemblea Costituente (gennaio 1918). E così risponde: «Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità». Dunque «lo scioglimento della Costituente è per noi un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente ha dovuto assumere». Tesi azzardata, ma che, per Gramsci, serviva a tenere in piedi l’impianto ideologico ostile al giacobinismo.

Ai giacobini e ai democratici, a detta del fondatore dell’«Ordine Nuovo», manca il senso della storicità del reale: «Di qui la tendenza ad agire di autorità per superare le resistenze che incontrano i loro propositi politici, nel tentativo di piegare con la forza la materialità delle condizioni storico-sociali». Se gli avvenimenti non si svolgono secondo lo schema prestabilito, scrive Gramsci, «si grida al tradimento, alla defezione, si suppone che perverse volontà ne abbiano attraversato il “naturale” decorso… E il giacobinismo trae dal suo spirito messianico, dalla sua fede nella verità rivelata, la pretesa politica di sopprimere violentemente ogni opposizione, ogni volontà che rifiuti di aderire al contratto sociale; e si cade nelle contraddizioni, così comuni nei regimi democratici, tra le professioni di fede inneggianti alla libertà più sconfinata e la pratica di tirannia e di intolleranza brutale». Sostiene che giacobinismo e intolleranza vanno di pari passo, «perché l’habitus giacobino non ha cognizione del fondamento storico delle opinioni in contrasto e non sa farsi una ragione dell’esistenza di avversari»; invece, i socialisti, in virtù dell’ispirazione storicistica della loro dottrina, sanno «che nella storia che gli altri attuano vi è un elemento di necessità».

Scrive su «Il Grido del popolo» nel giugno del 1918: «Il “pensiero libero” dei socialisti porta con sé una grande tolleranza nelle discussioni e nelle polemiche, mentre il “libero pensiero” dei massoni e dei libertari è intollerante e giacobino. I socialisti, in quanto pensano liberamente, storicisticamente, comprendono la possibilità della contraddizione, e perciò più facilmente la vincono, e allargano così la sfera ideale e umana delle proprie idee. I libertari, in quanto sono dogmatici intolleranti, schiavi delle particolari loro opinioni, si insteriliscono in vane diatribe, rimpiccioliscono tutto. Non potendo immaginare che gli altri la pensino diversamente da loro (e questa mancanza di fantasia logica e storica è appunto la schiavitù del loro pensiero), nella contraddizione, nella critica non sanno vedere che motivi volgari, bassamente interessati». Di qui la necessità del «riconoscimento dell’avversario»: «Primo canone di realismo è riconoscere la realtà degli altri». E ancora: «Non rimproveriamo agli avversari del socialismo di essere avversari del socialismo; avendo una coscienza esatta della nostra personalità, del compito che ci siamo proposti, del metodo attraverso il quale cerchiamo di raggiungere i nostri fini, comprendiamo perfettamente che possano e anzi debbano esistere i nostri avversari».

Nel corso della Prima guerra mondiale, allorché — in seguito ai moti torinesi dell’agosto 1917 — fu varato il «decreto Sacchi» che introduceva limiti alla libertà di espressione e di stampa, Gramsci accentuò questo genere di polemica. Ettore Sacchi, ministro della Giustizia, era un esponente del Partito radicale che in passato aveva cercato collegamenti con i socialisti: adesso, nel nome della lotta al disfattismo, proprio lui introduceva per decreto un limite alla libertà di pensiero. Ciò che per Gramsci suonava conferma della vocazione autoritaria del giacobinismo democratico: «La tradizione giuridica italiana», denunciò su «Il Grido del popolo», «è stata sovvertita da un ministro democratico che… ci fa tornare ai tempi barbarici». Ma, ripetiamo, la critica gramsciana della democrazia è molto diversa da quella degli intellettuali antidemocratici che nell’Italia del primo Novecento si erano distinti per il loro crescente antiparlamentarismo e antiegualitarismo.

Sulla scia di queste concezioni politiche è abbastanza sorprendente quel che Gramsci scrive al cospetto della rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Merito della rivoluzione sarebbe stato quello di aver «ignorato il giacobinismo». Secondo Gramsci, la rivoluzione leninista «non tende all’instaurazione di un potere che abbia bisogno di sostenersi con la violenza e il dispotismo; il movimento non è sospinto da una fazione, ma esprime i bisogni della maggioranza della popolazione, e questa maggioranza, appena sarà messa in condizione di pronunciarsi, dimostrerà di volersi riconoscere nell’opera della rivoluzione».

Nulla di tutto ciò si verificherà. Ma è interessante sottolineare quanto colui che nel 1921 avrà un ruolo importante nella fondazione del Partito comunista d’Italia respinga in più occasioni il parallelo tra la rivoluzione francese e quella russa. A proposito della Francia di Robespierre, scrive che «la borghesia, quando ha fatto la rivoluzione non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici… La rivoluzione russa, invece, ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne… i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno cioè sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far funzionare il suo programma … perché essi perseguono un ideale che non può essere solo di pochi, perché essi sono sicuri che quando tutto il proletariato russo sarà da loro interrogato, la risposta non può essere dubbia».

E a riprova del fatto che questa volontà sia già allora più che evidente, Gramsci cita un episodio che lo ha molto colpito: alcuni detenuti per reati comuni che, all’annuncio della libertà loro concessa dal governo rivoluzionario, in un caso «risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe», in un altro «si radunarono nel cortile della prigione e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro». «Questa notizia», afferma Gramsci, «ha importanza ai fini della rivoluzione socialista, quanto e più di quella della cacciata dello zar e dei granduchi». Dal momento che i detenuti erano diventati, con la rivoluzione, «così liberi da essere in grado di poter preferire la segregazione alla libertà, da imporsi essi, volontariamente, una espiazione». Il comune malfattore «è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato… l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo della mia coscienza dentro di me». Poi verrà, come si è detto, l’amara sorpresa dello scioglimento della Costituente. Alla quale ne seguiranno di peggiori. E, drammaticamente, Gramsci dovrà rivedere molte delle idee che avevano caratterizzato, tra il 1914 e il 1919, la sua formazione. Quasi tutte.

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