È sempre più chiaro che non solo la Grecia e l’Italia, ma anche l’Europa, gli Stati uniti, e il mondo intero, stanno marciando verso una recrudescenza irreversibile della crisi in corso. La questione del debito – dei debiti: quelli delle «famiglie», delle imprese, delle banche, dei «fondi», degli Stati – ha offuscato quasi completamente la questione ambientale, a partire dai cambiamenti climatici e, a seguire, dell’acqua, della biodiversità , della deforestazione, dell’esaurimento delle risorse rinnovabili e non rinnovabili.
È sempre più chiaro che non solo la Grecia e l’Italia, ma anche l’Europa, gli Stati uniti, e il mondo intero, stanno marciando verso una recrudescenza irreversibile della crisi in corso. La questione del debito – dei debiti: quelli delle «famiglie», delle imprese, delle banche, dei «fondi», degli Stati – ha offuscato quasi completamente la questione ambientale, a partire dai cambiamenti climatici e, a seguire, dell’acqua, della biodiversità , della deforestazione, dell’esaurimento delle risorse rinnovabili e non rinnovabili.
Il pianeta Terra viene messo al tappeto da una «crescita» di prelievi e di emissioni che non è in grado di sostenere. Eppure è proprio alla «crescita», a una «ripresa» della crescita, al raggiungimento di tassi di crescita irrealistici e insensati, come quelli che sarebbero necessari per fare fronte alla crisi del debito, che tutto l’establishment politico, finanziario, industriale e accademico fa continuamente riferimento come ricetta per «uscire dalla crisi».
Prendiamo il caso dell’Italia: per raggiungere il pareggio – di cui è prevista addirittura la «costituzionalizzazione» – il bilancio dello Stato dovrebbe realizzare un avanzo primario (differenza tra le entrate fiscali e la spesa pubblica) del 5 per cento del Pil all’anno (ma con l’attuale spread si arriverà facilmente al 6,5 per cento). Per fare fronte alla nuova versione del patto di stabilità europeo (che impone di ridurre ogni anno del 5 per cento la quota di debito che eccede il 60 per cento del Pil) ci vuole almeno un altro 3 per cento annuo. Per avere la «crescita», una volta assolti questi obblighi, ci vorrebbe un altro 2-3 per cento: cioè un aumento annuo del Pil del 10-12 per cento: tassi «cinesi». Ma di una Cina che non esiste più. Perché si cominciano a pesare anche là scioperi, aumenti salariali, disastri ambientali, rivalutazione dello yuan e delocalizzazioni (che alla fine cominciano a coinvolgere anche quel paese: alcune «in senso inverso», con un ritorno delle produzioni nei paesi da cui erano emigrate; altre verso paesi ancora più «economici», sia in campo ambientale che salariale). E questo sta mettendo fine al dumping con cui sono stati costruiti quindici anni di «sviluppo» tanto accelerato quanto insensato e pericoloso.
In attesa di un ritorno alla «crescita», però, in Italia come in Grecia, e in tutti i paesi sottoposti al ricatto del debito, si cerca di «salvare» i conti saccheggiando tutto quello che è saccheggiabile: pensioni, pubblico impiego, livelli salariali, occupazione, pause e ritmi di lavoro, diritti, assistenza sanitaria, scuola, università, ricerca, trasporti pubblici, welfare municipale. Ma soprattutto privatizzando tutto il privatizzabile; e anche quello che privatizzabile non è, perché gli italiani hanno votato perché non lo sia. Ma è proprio lì che ci sono i bocconi più succosi: nei servizi pubblici locali. E i caimani più voraci: la mafia che ha la «liquidità» per comprarli; oggi, e per molti anni a venire, a prezzi di svendita.
Basta con la tesi che privato è meglio di pubblico: sono uguali, ugualmente voraci, e inestricabilmente intrecciati. Solo per fare qualche esempio: il disastro dei rifiuti in Campania è il prodotto dell’affidamento (fraudolento) del ciclo dei rifiuti di un’intera regione a un gruppo privato (Impregilo) che continua a dominare gli appalti pubblici in tutto il paese: facendo disastri. A2A, impresa pubblica quotata in borsa, sta affondando per aver cercato di inghiottire Edison. Eni ed Enel, di cui il ministro Tremonti – improvvisamente trasformato in un ammazza-evasori – mantiene il controllo, sono entrambe ben insediate nei peggiori «paradisi fiscali» (non sarebbe ora di cominciare la lotta all’evasione proprio da lì?). Ecc. La gestione dei beni comuni – e dei servizi pubblici – non può essere né pubblica né privata: deve essere «comune», cioè condivisa, trasparente, partecipata.
Ma la Bce fa ora pagare alla Grecia, con la distruzione del suo tessuto economico, le spese sostenute con i costi astronomici delle Olimpiadi di Atene e con i giganteschi acquisti di armi, mentre corruzione e evasione fiscale imperversavano. Niente che la Bce non sapesse; o non potesse sapere per tempo. La situazione italiana non è diversa: anche qui, sotto gli occhi della Bce, le spese militari sono cresciute dell’80 per cento e gli «eventi» – dalle Olimpiadi invernali all’Expò, passando per il G8; ma ce ne sono stati altri mille, promossi, naturalmente, per «rilanciare» lo sviluppo – si sono moltiplicati, divorando i fondi sottratti a scuola, università, ricerca, trasporti, difesa idrogeologica, welfare, ecc. Mentre corruzione e evasione fiscale impazzavano e impazzano, qui come là. La Grecia, si dice ora, ha truffato la Bce falsando i bilanci (ma la responsabilità è di Goldman&Sachs, all’epoca in cui Mario Draghi, ora governatore della Banca d’Italia e domani Presidente della Bce, ne dirigeva la branca europea). La verità è che l’unico a essere veramente truffato – dal suo Governo, dalla Bce e da Goldman&Sachs – è stato il popolo greco. Come lo è – e continua a esserlo – il popolo italiano. Che a differenza della Bce, che sicuramente «sapeva» che si stava imboccando una strada senza ritorno, non ha nessuno strumento per controllare, e nemmeno per sapere, come vengono spesi i fondi del bilancio pubblico e a che cosa sono riconducibili i deficit che, anno dopo anno, hanno concorso a mettere insieme il debito mostruoso di cui adesso vorrebbero renderci schiavi.
Per questo è irrinunciabile la rivendicazione di un auditing pubblico del bilancio: quello che oggi viene rivendicato dai movimenti che riempiono le piazze greche; che un anno fa è stato promosso dal governo equadoregno di Correas, che sulla base delle risultanze si è sbarazzato di metà del suo debito; e che diversi altri governi hanno in programma. Il debito, la sua composizione, la sua origine devono diventare l’oggetto di un pubblico dibattito che supporti la rivendicazione di non pagarlo; o di riconoscerlo solo in parte.
Ma se non si paga il debito – ci si chiede – o una sua parte, o una parte degli interessi, non si manda a catafascio il circuito monetario, e con esso le banche, i mezzi di pagamento, la possibilità stessa di lavorare e produrre? Non è detto. Molte banche, nel 2008 e nel 2009, negli Stati uniti come in Europa, sono andate in fallimento già una volta (la banca franco-belga Dexia addirittura due); e sono state salvate a spese dei bilanci pubblici. Molte altre hanno nascosto, e continuano a nascondere, nonostante i cosiddetti stress-test, quasi tutti fasulli – altro che Grecia! – il loro stato fallimentare. Il circuito economico non si è certo bloccato. Anzi. Quasi tutte le banche hanno ripreso a speculare (anche, e soprattutto, sui titoli di stato), a fare profitti a spese del sistema produttivo, a pagare bonus astronomici ai loro dirigenti. Tanto che ora siamo al punto di prima; anzi, peggio. Infatti, è lo stato comatoso delle banche il motivo per cui i cosiddetti debiti sovrani (cioè i debiti di Stati che «sovrani» non sono più da tempo) preoccupano tanto.
Il fatto è che questa crisi planetaria non troverà soluzione fino a che non si sarà sgonfiata la bolla del debito che da quattro anni rimbalza dai mutui subprime alle banche, e da queste agli Stati, e dagli Stati di nuovo alle banche, e da queste al tessuto produttivo, o ai redditi di chi lavora, mettendo alle corde le entrate fiscali e, con esse, ancora di più i bilanci degli Stati. Ma per sgonfiare quelle bolle non basteranno tutte le misure prescritte da Mario Draghi e avallate dall’establishment. Per farlo occorre azzerare buona parte del debito in essere. Prima lo si fa e meglio sarà per tutti (tranne, ovviamente, per chi su quelle bolle fa profitti; e non son pochi). Meglio lo si fa – cioè, in modo «pilotato», selettivo, scadenzato, e con adeguate compensazioni, dove è indispensabile – e prima si potrà tornare a parlare del «che fare». Ma non per «crescere», per gonfiare il Pil a spese del benessere di chi lo produce; ma per valorizzare le capacità, le competenze, i saperi, la buona volontà, la convivenza, gli affetti di milioni di persone oggi sotto sequestro dai vincoli del debito.
Per questo occorre aprire un dibattito pubblico generale su quale sia – anche da un punto di vista strettamente «tecnico» – il modo migliore per liberarsi del debito; un dibattito fondato sulla trasparenza (bando ai segreti, bancari e aziendali!) e sulla partecipazione; senza temere l’inevitabile conflitto che un processo del genere scatena nei confronti di tutti coloro che detengono le leve del vero potere mondiale; e di tutti coloro che ne traggono beneficio asservendosi.
La finanza internazionale sta distruggendo le ultime parvenze di sovranità popolare e di democrazia. Oggi non si può difendere e rivendicare la democrazia – che non è mai una condizione acquisita, ma è sempre un processo in corso, più o meno sviluppato – se non riunificando economia e politica in un’autentica democrazia economica. Una democrazia dove si possa decidere, o rivendicare e lottare per il potere di decidere, che cosa produrre, per chi produrre, dove produrre e come produrre; dove i diritti di ciascuno non vadano a detrimento di quelli di nessun altro. Non è il manifesto di uno «stato ideale», ma l’indirizzo concreto di un processo pieno di ostacoli e di contraddizioni. Ma che ora si è messo in moto.
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