VERSO IL 15 OTTOBRE
Marchionne esce dalla Confindustria. Aveva un piano e l’ha perseguito con tenacia. Nel 2004 con il suo discorso programmatico aveva indicato per il rilancio della Fiat la strada del World Class Manifacturing con al suo centro il dominio del management sull’organizzazione del lavoro e la partecipazione in via gerarchica dei lavoratori. In Italia si poteva concedere al massimo un sindacato aziendale, come alla Toyota, senza autonomia, collaborativo e non conflittuale.
VERSO IL 15 OTTOBRE
Marchionne esce dalla Confindustria. Aveva un piano e l’ha perseguito con tenacia. Nel 2004 con il suo discorso programmatico aveva indicato per il rilancio della Fiat la strada del World Class Manifacturing con al suo centro il dominio del management sull’organizzazione del lavoro e la partecipazione in via gerarchica dei lavoratori. In Italia si poteva concedere al massimo un sindacato aziendale, come alla Toyota, senza autonomia, collaborativo e non conflittuale. In fondo a questa strada Marchionne ha trovato l’art. 8 del decreto che gli dà mano libera sui licenziamenti, le qualifiche, gli orari, il precariato, il controllo a distanza dei dipendenti.
In un Paese dove non c’è un’idea di sviluppo è diventata opinione corrente che per reggere la competizione globale occorre superare il modello sociale europeo, in cui centrale è la contrattazione collettiva. Eppure la Germania dimostra il contrario. Là rimane forte il compromesso tra capitale e lavoro nelle aziende come nel territorio. Le relazioni industriali e sindacali partecipate sono alla base dei successi della Volkswagen, diventato primo produttore mondiale di automobili. Lo stesso vale per i paesi scandinavi, a cominciare dalla Svezia, dove i diritti legati all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione nei luoghi di lavoro sono ancora forti. In Italia, invece, partecipazione è sinonimo di comando gerarchico e paternalismo, come “qualità del lavoro” è pura retorica dietro cui si nascondono precarietà e sfruttamento, sia nel lavoro operario che in quello autonomo di chi opera nella Rete.
Esiste un’alternativa. È, come dice la Fiom nella piattaforma per il rinnovo del contratto, «la contrattazione preventiva, fin dalla fase di ideazione in materia di politiche industriali, investimenti, nei processi di modifica delle modalità lavorative, dei modelli organizzativi, di ristrutturazione e trasformazione dell’impresa». Se non c’è un’alternativa nel cuore del processo produttivo, qualsiasi discorso sull’alternativa perde di consistenza. Fausto Bertinotti ha giustamente indicato la necessità, contro il vincolo esterno imposto dalle oligarchie finanziarie attraverso il braccio armato delle agenzie di rating, di costruire un vincolo interno, un programma che chieda «una operosa redistribuzione dei redditi a favore del salario in tutte le sue forme… la costruzione di un sistema di diritti esigibili finalizzati al pieno sviluppo della persona umana… la difesa e valorizzazione della natura… la messa in discussione dell’attuale rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro».
Un programma così ha bisogno di una forte ripresa di iniziativa sindacale e di una consapevole condivisione politica e sociale, altrimenti non si esce dal paradosso europeo. Grandi mobilitazioni sociali erompono in modo erratico dentro la crisi e però si mantengano forti nelle relazioni personali individualismo e chiusure corporative; nelle società populismo e razzismi; nelle istituzioni le destre politiche. La cultura dei movimenti ha progressivamente smarrito il nesso fra natura, produzione, consumo e ricerca. Ha immaginato possibile un “diritto naturale all’abbondanza” (nella forma del progresso tecnologico o del buon-vivere della decrescita). La liberazione dal lavoro ha smesso di essere un progetto collettivo e si è fatta problema dei singoli, anche perché si è detto che «il lavoro non crea più identità». Le nuove formazioni politiche nate da questi movimenti (dai verdi tedeschi al movimento 5 stelle italiano al Partito dei pirati svedesi) si dichiarano orgogliosamente «né di destra, né di sinistra», considerano i lavoratori dipendenti dei «garantiti», diffidano dei sindacati. Anche nella sinistra europea, sia riformista che radicale, si sono affermate culture (dal «socialismo dei cittadini» alla «terza via», all’altermondialismo) che hanno dato più importanza ai temi dei diritti di libertà e all’affermazione di una democrazia partecipativa rispetto agli obiettivi di piena occupazione e redistribuzione del reddito propri della tradizione socialdemocratica.
È questa frattura sociale e culturale che va sanata mettendo il riconoscimento della qualità e dell’autonomia del lavoro al centro di un progetto che unifichi i lavoratori dipendenti e i nuovi lavoratori autonomi, che operano spesso in modo precario nel terziario avanzato, nei settori della cultura e dell’innovazione. L’indignazione contro le ingiustizie deve diventare azione sociale e programma politico, conquistare un ampio consenso di massa e incidere sul funzionamento delle istituzioni. Senza di questo, la rabbia della rivolta o è sterile o è pericolosa. Di tutto ciò la manifestazione del 15 ottobre sarà banco di prova.
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