«Peoples of Europe, rise up!», uno spazio politico indipendente

15 ottobre/ MOVIMENTI IN ASSEMBLEA NELLA CAPITALE

15 ottobre/ MOVIMENTI IN ASSEMBLEA NELLA CAPITALE

 ROMA. «A casa non si torna». Il problema è organizzarsi per restare fuori. Il precedente c’è, sia in Italia (poco) che in altri paesi (soprattutto Stati uniti e Spagna), e diventa visibile sotto lo slogan «accampiamo diritti». Al Volturno – ex cinema romano occupato – si è svolta l’assemblea nazionale di quella parte di movimento che comincia a essere stanco della «solita sfilata» e che mostra qualche sofferenza in più – nel senso che si va allargando la cerchia dei «sofferenti» – dopo che la Questura di Roma ha di fatto imposto che il corteo del 15 si concluda a San Giovanni, senza nemmeno sfiorare quei «palazzi del potere» che invece tutti volevano inizialmente «assediare».

Un equivoco va subito spazzato via. Nonostante i riferimenti oscuri della polizia a «intercettazioni preoccupanti», qui nessuno ha in testa il clima degli anni ’70. Semmai quello di Madrid, Barcellona o New York di questi mesi. Perché, in fondo, se hai qualcosa da dire contro quello che ti stanno facendo, dovresti poterlo dire a chi quelle decisioni prende e nel luogo in cui (formalmente, almeno) le prende. Parlare a un muraglione distante tre chilometri, non è la stessa cosa…
Un esempio concreto viene con la proposta di consegnare a Mario Draghi, mercoledì 12, durante la cerimonia nella sede centrale di banca d’Italia cui parteciperà anche il presidente Giorgio Napolitano, una busta con su scritto «rispedita al mittente»; allusione esplicita alla «lettera della Bce» da lui firmata in coppia con Jean-Claude Trichet. Nulla di «sovversivo», insomma, ma almeno rivolto all’indirizzo giusto.
L’assemblea unisce molte «soggettività» con storie diverse (dagli studenti a un pezzo di Fiom, dai sindacati di base a «Roma bene comune», dagli occupanti di case ai «No tav», ecc. Il tratto comune è la volontà di «costruire uno spazio politico indipendente» dai partiti (quelli presenti attualmente in parlamento»; in particolare dal Pd e da quanti si muovono nella vecchia logica del «cartello elettorale antiberluscniano», che da quasi 20 anni porta a sacrificare i contenuti rispetto agli schieramenti.
Questa autonomia vuole rappresentarsi anche all’interno del corteo – che sarà comunque unitario, altro elemento di maturità da sottolineare – per dar voce ai conflitti sociali, ai movimenti, alle lotte per i beni comuni e contro le devastazioni ambientali». Il riferimento comune è «is not our debt, global revolution», uno slogan che campeggia anche sul sito internazionale per il 15 ottobre (United for global change). Mentre sugli striscioni verrà probabilmente richiamato l’altra parola d’ordine globale (Peoples of Europe, rise up!), che suona un tantino meno vaga del «cambiare l’Europa per cambiare l’Italia» scelto dalla maggioranza dei gruppi italiani che scenderanno in campo il 15. Una mappa di oltre 400 proteste in almeno 45 paesi, che dà il senso – come ai tempi di Seattle, ma sotto la sferza di una crisi che non sembra avere vie d’uscita – di una resistenza globale che chiede un radicale rovesciamento delle priorità del sistema economico.
Nei discorsi dal palco fioccano gli esempi e i riconoscimenti (agli studenti di Milano, che hanno «sigillato» Bankitalia e Moody’s). Così come gli inviti a considerare il 15 come una tappa di una lunga campagna, non come il punto d’arrivo di una mobilitazione. Con i dilemmi di ogni nuovo movimento: «evitare le fughe in avanti», ma anche «evitare che l’attesa del consolidamento del movimento produca invece rassegnazione». Perché il problema politico, alla fin fine, è chiaro: superare «la ritualità» dei cortei per promuovere «l’assedio dei palazzi del potere», ma senza fornire pretesti a chi vorrebbe affrontare il malessere sociale come un problema di puro ordine pubblico.

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