ZANZOTTO NOVANTA
Ad accompagnare il novantesimo compleanno di Andrea Zanzotto, che cade domani, 10 ottobre, sono usciti diversi volumi: saggi critici sulla sua opera, gli scritti sul cinema e un Oscar con «Tutte le poesie» Di una «durée» che non ha una sola direzione, il poeta scrive a proposito di Fellini. Ma sono parole che potrebbe dire per sé
ZANZOTTO NOVANTA
Ad accompagnare il novantesimo compleanno di Andrea Zanzotto, che cade domani, 10 ottobre, sono usciti diversi volumi: saggi critici sulla sua opera, gli scritti sul cinema e un Oscar con «Tutte le poesie» Di una «durée» che non ha una sola direzione, il poeta scrive a proposito di Fellini. Ma sono parole che potrebbe dire per sé
“Sbagliato credere che la signorina Morchet / sia – così vecchia – / proprio là in fondo, nel fondo di Lorna». È una maestra, la signorina Morchet: giudiziosa, prudente, il garbo all’antica, i lunghi viaggi immaginari nel fitto della conoscenza. Passo a passo, insegna Dante ai bambini del piccolo Centro di Lettura: non una scuola, ma un crocevia di microesistenze, di fragilità incise e suppurate nelle creature più piccole di quel piccolissimo habitat. E Lorna? Dov’è Lorna? Non esiste. È un non-luogo, a modo suo: «probabilmente perché in certi film americani appare il nome Lorna, un paese lontano e bello. È un nome che non ho più usato», confida il suo inventore, che oggi ha l’età che avrebbe forse l’eterna, immaginata maestra Morchet, e che sorride mentre richiama, con l’immagine di lei, altri snodi della propria vita.
Ferite, incisioni, strappi infantili e ossessivi, nello stesso piccolissimo habitat dove si ricuciono i ricordi: la zia Teresina, ironica e emancipata, che esponeva con orgoglio nella cartoleria di famiglia il primo libro di poesie del nipote fresco di studi, Dietro il paesaggio; e quella maestra all’antica – si chiamava Burtet, in realtà; non Morchet; e non veniva dall’immaginosa Lorna, bensì da Refrontolo, provincia di Treviso, regno di prosecchi e passiti. Quella maestra, insomma, comprava il libretto, fiduciosa e incuriosita, per tornare qualche giorno dopo a esclamare, tutta disorientata: «Sala, siora Teresina, la varda che ‘l scrive massa difizile so nevodo, no se capisse niente».
E il «nevodo», il nipote che scriveva troppo difficile, era Andrea Zanzotto, che oggi ha novant’anni e rimane a buon diritto – lo scrive Patrizia Valduga in apertura del numero 46 della rivista «Autografo», intitolato, appunto, I novanta di Zanzotto – «capitale della poesia». Oggi è lui, la vera maestra Morchet per tutti i suoi lettori. Ed è sbagliato crederlo perso là in fondo alla sua «Lorna», che sarebbe la natìa Pieve di Soligo, neanche a dirlo. Il fascicolo di «Autografo» lo rilegge, infatti, a partire da un’incandescente relazione con i tempi di oggi, in un’acuta apertura di Niva Lorenzini sulla gestione dei silenzi dell’ultima raccolta, Conglomerati; ne riprende poi le Pasque del 1973 – gli antichi luoghi, appunto, della maestra Morchet – per opera di Luca Stefanelli (autore, fra l’altro, di un bel volume, appena uscito, sulla genesi testuale della Beltà, pubblicato da Ets); ne esplora quindi l’archivio presso il Fondo Manoscritti di Pavia, e ne pubblica inediti, lettere e rari, chiudendo con un’intervista di Luciano Cecchinel.
L’habitat di Zanzotto si riaffaccia, invece, con nomi e cognomi, luoghi e foto in un volume Interlinea curato da Giovanna Ioli: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi. Immagini di Zanzotto bambino, sorpreso a contemplare le decorazioni e le miniature del padre, e ad ascoltare il flusso del linguaggio naturale in molecole sfrangiate e mobilissime: un’adolescenza di perdite, di paure, di asili, suore, convitti, preti, dame di carità e altri calamitosi destini.
Muore a poco a poco la pedagogia della signorina Morchet, quella del sacrosanto dovere kantiano; si disfa, al tempo stesso, il tessuto di significati che ogni filo d’erba, in quel divenire naturale, conservava in sé; si perdono i dialetti, con i loro intrighi, i giochi d’invenzione, le cristallizzazioni e le ironie. Ma Zanzotto è lì a ricucire, pazientemente. Esiste di sicuro, come aveva scritto nel 1967 Jean Piaget, un ponte tra biologia e conoscenza: l’atto cognitivo e i processi organici di un ecosistema, il linguaggio e il paesaggio, sono interconnessi, non solo per metafora. Su quel ponte si muove dunque la poetica di Zanzotto: Il Galateo in Bosco (1978) è un percorso di stazioni lungo la linea degli ossari di guerra. I campioni di realtà, prelevati dal piccolissimo habitat, affollano ora la lingua, e popolano un paesaggio sempre più invivibile, nel quale il poeta si ostina a ripescare e a ricomporre pezzi di Sublime. Un bricoleur, uno che «raspa su»: così torna a vedersi Zanzotto nel libro di Enio Sartori, punto di partenza obbligato, di qui in avanti, per captare quella svolta: Tra bosco e non bosco, pubblicato da Quodlibet.
Qui, lungo la linea del Galateo, sembra che il suolo abbia assorbito definitivamente la morte, come già accadeva nel Dolore di Ungaretti, dove i morti «non fanno più rumore / del crescere dell’erba». Ora però la morte è restituita ai sensi umani in forma di grappolo di memoria, di insieme di dati da sottoporre a una specie di riprogrammazione generale. La chiave del processo sta in uno scritto che Zanzotto ha dedicato, nel 1980, alla Città delle donne di Federico Fellini. Si parla di sintassi, di montaggio, di ordine delle immagini: «non un impossessamento del tempo attraverso un ritmo che dispone, assesta e modula, ma uno strisciare “col” tempo, con una durée che non ha una sola direzione e tanto meno una sola “densità”».
Zanzotto legge in Fellini, insomma, l’arte di restituire per sobbalzi e accumuli di significato la non-linearità del tempo; e in molti altri aspetti l’esegesi felliniana, inaugurata con la collaborazione di Zanzotto al Casanova, 1976, si può leggere come autoriflessione, come poetica condivisa. Ne dà ricca testimonianza un volume Marsilio intitolato Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, curato da Luciano De Giusti. Qui Zanzotto riproietta Fellini dentro di sé, paragonandolo per efficacia rappresentativa all’amatissimo Michel Leiris, con l’autobiografia «dispersa nei propri metodi di autoindagine, e instancabilmente risagomata in essi». Sul piano poetico si potrebbe dire, brutalmente, che in Zanzotto l’hardware è Dante, e il software è Petrarca. Ma una volta di più, anche qui, l’equilibrio tra le due grandi ascendenze è tutt’altro che stabile.
Stefano Dal Bianco, curatore dell’Oscar Mondadori Tutte le poesie, in uscita questa settimana, individua in Addio a Ligonàs – la prima sezione del libro più recente, Conglomerati – un brulichio tormentato tra purgatorio e inferno, lo sparigliamento di tutte le carte, il caos tremendo dei dati. Ma non solo. Scrive Dal Bianco, come meglio non si potrebbe: «tutto congiura verso l’immagine di una disinibizione totale, una mancanza di filtro, un mettersi in pantofole della scrittura con puntate verso la piena oralità (…)e una disarmata franchezza». E Dante si ritrova più che mai, in questo «oscuro cielo di riferimenti criptati».
La seconda sezione di Conglomerati si intitola Tempo di roghi, e ospita versi violenti, di carta vetrata, come questi: «La stoltezza che circola si palpa / come un vento / i vecchi partigiani / si perdono coi loro alzaimer / i vecchi ex-internati / nei loro post-ictus / tutto è perso o / sotto malocchio». Il problema non è più, come sembra, fare poesia dopo Auschwitz, bensì dopo l’oblio diffuso di Auschwitz: nella tempesta, cioè, e nel rincretinimento di massa. Eppure l’ultimo Zanzotto è in grado, si direbbe, di offrire una nuova, terribile riprogrammazione di quei dati bruti. Un «sottoparadiso», per definizione d’autore; oppure – come lo chiama Stefano Dal Bianco – un «oltremondo», in cui «la poesia è farmakon: è il trauma e la sua riabilitazione».
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