Delitti e misteri, la leggenda di Alba

Tesori, guerra partigiana e amori nella nebbia delle Langhe: un giallo non solo storico

Tesori, guerra partigiana e amori nella nebbia delle Langhe: un giallo non solo storico


Il morto è già alla prima riga della scena d’apertura: «Chi trovò il corpo di Domenico Moresco pensò subito a un infarto». Sono le nove di mattina in un bosco delle Langhe ed è il 25 aprile del 2011.

Alla prima riga della seconda scena risuona uno sparo (a sparare è il morto della scena d’apertura): «La fucilata di Domenico Moresco fece saltare il chiavistello della canonica con tutta la serratura». Sono le due del mattino del 19 aprile del 1945 nella città di Alba durante la guerra partigiana.

Alla prima riga della terza scena, il romanzo si concede una pausa di malinconia per tessere l’elogio di novembre, il meno crudele dei mesi: «Amilcare Braida aveva sempre pensato che novembre fosse il mese migliore per morire. Soprattutto in Langa. In Langa, a novembre, comincia a maturare il vino. Nascono i tartufi. Le viti prendono tutti i colori: rosso, granata, viola, rubino». È il 17 novembre 1963 a San Benedetto Belbo.

Il primo romanzo di Aldo Cazzullo, La mia anima è ovunque tu sia, funziona come un meccanismo a orologeria, una macchina del tempo. Gli ingredienti principali (dichiarati fin dal sottotitolo) sono un delitto, un tesoro, una guerra e un amore. Che corrispondono, in termini di generi letterari, al giallo (il delitto), all’avventura (il tesoro), all’epica (la guerra) e al rosa (l’amore). Tutto raccontato in poco più di cento pagine legate assieme dalla langhitudine (se mi passate il termine) che è un sentimento forte e sottile come il mal d’Africa o la saudade che affligge i calciatori brasiliani quando giocano all’estero.

Sul romanzo aleggia una leggenda, secondo la quale c’era una volta nella città di Alba, verso la fine della Seconda guerra mondiale, il tesoro senza più padrone della Quarta Armata, quella che aveva presidiato il Sud della Francia. In tanti ci avevano messo gli occhi sopra ed erano pronti a uccidere per impossessarsene. Un prete decise allora che la cosa migliore da fare era spartirselo con un capo partigiano, metà e metà (fifty fifty come avrebbe detto Beppe Fenoglio, grande scrittore di quelle zone con il debole dell’anglofilia). E così fu. Il tesoro venne fatto fruttare e diede vita a due grosse e distinte imprese industriali.

Nel romanzo le due imprese industriali diventano due aziende vinicole. Una è quella di Domenico Moresco (il morto della prima riga), l’altra è quella di Antonio Tibaldi. Le vite parallele dei due raccontano un pezzo di storia d’Italia. Moresco è comunista e ha fatto la Resistenza. Tibaldi è cattolico (democristiano?) e quando la guerra infuriava si è comodamente imboscato sotto la protezione di un prete, don Bergoglio (colui che salomonicamente divise il bottino di guerra). Anche dal punto di vista enologico, e non solo politico, i due uomini sono agli antipodi. Moresco produce bottiglie (a cominciare dal suo mitico Barbaresco) che si trovano solo nelle enoteche più esclusive. Tibaldi, più popolare, riempie con la sua Barbera gli scaffali dei supermercati. Entrambi fanno fortuna, un’immensa fortuna.

Alla notizia della morte del rivale, Tibaldi si allarma e, sospettando che si tratti di un delitto, assume una avvenente detective privata svizzera (che non esita a ricorrere a session di sesso estremo pur di portare a termine la sua missione). A indagare, con metodi più tradizionali, ci sono pure due poliziotti terroni. Un ispettore originario della Costiera Amalfitana e un commissario calabrese che sulle Langhe si è fatto un’idea precisa: «Una terra crudele, se necessario anche più dell’Aspromonte da cui veniva». Per i due investigatori non è facile muoversi in un ambiente dove si sentono ragionamenti anti-terronici di questo tipo: «Se Saviano o Cassano fossero nati qui vicino, a Bene Vagienna o ad Acqui Terme, non se li filerebbe nessuno». O dove i preti, come padre Bergoglio, citano preferibilmente tra tutte le parole del Vangelo quelle che dicono: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti». O ancora (sempre padre Bergoglio, bel personaggio) amano dichiarare che «è l’ipocrisia che salva il mondo».

Nel romanzo Alba e dintorni non appaiono luoghi particolarmente raccomandabili. Gli abitanti, i langhetti, sono per tradizione «giocatori d’azzardo, suicidi, truffatori». Sono poi gelosissimi della loro peculiarità e del loro isolamento. «Già Torino per noi è una capitale straniera. Si figuri Roma», dice il vecchio Tibaldi all’ispettore. Sono, ovviamente, orgogliosissimi delle loro eccellenze gastronomiche: «Non è vero che il tartufo si apprezza di più con l’uovo. L’uovo è sempre troppo cotto o troppo poco. Naviga nell’olio, peggio se olio al tartufo. Il rosso è troppo carico di sapore, e il bianco non sa di niente. Molto meglio la fonduta. Solo allora il tartufo, tagliato sottile, sprigiona un profumo così intenso che pare davvero di essere sepolti nella terra». Infine, sono filologicamente puntigliosi quando si parla della guerra partigiana. A partire dalle canzoni: «Bella Ciao», la numero uno della hit parade resistenziale, «da quelle parti durante la guerra vera non si era mai sentita».

Nemmeno il profumo stordente della bagna cauda, però, distrae i due investigatori meridionali. Un po’ alla volta gli scheletri vengono fuori dagli armadi. Si scoprono triangoli sentimentali al tempo della Resistenza. Riemerge dalla nebbia del passato una storia d’amore che finisce in ferocissima tragedia per mano repubblichina. Né mancano sviluppi extraconiugali a un passo dagli intrecci classici di Feydeau, ma di un Feydeau livido, senza allegria. Il custode di queste storie è un altro bel personaggio, quello di Amilcare Braida, liberamente e deliberatamente — da partigiano si faceva chiamare Johnny — ispirato al mito di Fenoglio. Amilcare è un impiegato della Tibaldi Vini, scrive romanzi che non finisce mai e compila le bolle di accompagnamento dei vini esportati in America nell’inglese che ha imparato mandando a memoria i sonetti di Shakespeare.

A romanzo concluso, quando tutti i misteri sono stati svelati, Cazzullo, quasi a tradimento, ce ne propone uno nuovo. Forse il più misterioso di tutti. Accade all’ultima pagina, nella nota dell’autore che comincia nella maniera più rassicurante: «I personaggi di questa storia sono frutto di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti veramente accaduti o a persone davvero vissute è casuale». Ma finisce, in maniera tutt’altro che rassicurante: «Non so se ad Alba esista qualche Tibaldi, o qualche Moresco, o qualche Rinaldi. Se esistono, non hanno nulla a che fare con i personaggi della storia. Di sicuro ad Alba non c’è il lago. Non c’è la questura. Forse non c’è mai stato neppure un tesoro. Forse».

La caccia al tesoro continua a libro chiuso. Ad Alba, quando è notte fonda, di quel tesoro e di chi se lo spartì si parla ancora, tuttora abbassando la voce in un bisbiglio, perché i nomi dei beneficiati sarebbero nomi di persone famose.

I giornalisti, di solito, non sanno scrivere romanzi. Perché li covano a lungo, fantasticandoci sopra per troppo tempo tra un articolo e l’altro. Oppure perché sono allenati a distinguere il falso dal vero. Però a volte, quando si muovono sul labile confine tra la leggenda e la verità, i giornalisti sanno scrivere storie bellissime come questa. Allora il risultato è spietato e inesorabile e colpisce al cuore. Come una vendetta servita fredda.

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