I viaggi di Citati fra Ulisse e l’eternità 

Miti classici, presente prosaico, futuro imprevedibile: quasi un diario dell’anima

Miti classici, presente prosaico, futuro imprevedibile: quasi un diario dell’anima

«Un pomeriggio, quattro impavide pupille infantili mi chiesero di raccontare la storia di Ulisse. Cominciai alle cinque del pomeriggio. Alle otto, abbandonavo la terra dei Feaci. Ripresi alle dieci del mattino dopo, e quando finii all’una, dissi loro che le avventure di Telemaco nel Peloponneso gliele avrei narrate un’altra volta, in ottobre. Scoppiò la rivolta: mentre il riso scuoceva, le bistecche bruciavano, lo sformato di fagiolini si afflosciava, dovetti raccontare anche la storia di Telemaco, Nestore, Menelao, Proteo e le foche».

Potete scommettere che Pietro Citati darebbe via lo Strega e il Bagutta e tutti gli altri premi e gli onori ricevuti in vita sua, una vita grondante di riconoscimenti, in cambio della possibilità di rivivere quel magico pezzetto di vita passato coi figlioletti di un parente che viveva a Hong Kong: «Per quasi sei ore, senza stancarsi, senza trascurare un solo dettaglio, sedendo ora in grembo al padre ora alla madre, i due bambini riascoltarono la più antica di tutte le storie, che ventisette secoli fa risuonava già in tutta la Grecia».

Cosa può desiderare di più, un uomo come lui innamorato dell’incanto della parola, se non condurre alla scoperta della letteratura due bimbi cresciuti tra sofisticati giochi elettronici ma assetati di Polifemo e di Penelope? Certo, bisogna saperci parlare, con i bambini: «Soltanto se restiamo in qualche misura infantili, continuiamo a capire l’infanzia: ciò che è uno dei massimi doni dell’esistenza». Non è un caso, quindi, che il grande scrittore e critico letterario abbia scelto di aprire il suo ultimo libro, da domani nelle librerie, con i ricordi delle lunghe estati passate quando era piccolo a Cervo Ligure, un paese che «sapeva di pietra» dove «tutte le cose avevano un nome: ogni casa, ogni vicolo, ogni fontana, ogni giardino, ogni piccolotto, uno slargo, un ciuffo di ulivi o di carrubi» e la Ciappa, lo «scoglio sottomarino a trenta o quaranta metri da riva, che dava l’impressione di stare sempre per uscire dalla superficie del mare». I bambini, racconta, «raggiungevano la Ciappa: posavano i piedi sopra un foltissimo tappeto di alghe; e di lì salutavano trionfalmente la madre e i fratelli rimasti a riva. Era una specie di iniziazione. Chi aveva posato i piedi sopra la Ciappa, apparteneva già al mondo dei veri nuotatori».

Elogio del pomodoro: così si chiama il libro. Un titolo piccolo piccolo, minimalista. Che rende omaggio al «frutto supremo» che «insieme al cattolicesimo costituiva l’essenza della civiltà mediterranea». Un sapore perduto: «Oggi i pomodori sono morti, come è quasi morta la pittura. Spero che la morte della pittura sia temporanea, ma temo che quella dei pomodori sia irreversibile. I frutti che, in qualsiasi regione italiana, vengono portati in tavola, hanno quasi tutti la stessa forma: mentre il vero pomodoro ha forme diverse, complicate, con spaccature e screziature, e talvolta generosi aspetti barocchi, che piacevano ai pittori napoletani del diciassettesimo secolo. Non sanno di niente».

Uffa, dirà qualcuno, le solite nostalgie dei vecchi! Errore. Passo dopo passo, scrivendo del paesaggio italiano con quegli equilibri così magici che «dobbiamo difendere ogni quercia, ogni pino, ogni leccio, come se difendessimo le pietre stesse della cattedrale», oppure dei fondamentalisti islamici «figli dei nichilisti e di Hitler, di Lenin e di Stalin, e dell’immondezza ideologica che, nell’ultimo secolo, l’Europa ha rovesciato sull’universo», Citati aiuta a capire il mondo in cui viviamo con la saggezza di chi ha raggiunto con gli anni un sereno distacco dalle cose.

Perfino le più angoscianti: «Vorremmo morire con discrezione: senza pubblico, senza funerali, senza pompa, senza cerimonie, senza parole solenni e definitive. Come dice Jankélévitch, vorremmo scomparire “pianissimo e in punta di piedi”: scivolare silenziosamente via dalla vita, in un momento di disattenzione di tutti (e possibilmente anche nostro), come se morire fosse uno strano raffreddore incurabile». Certo, serenità e distacco non frenano qua e là stilettate ironiche e letali. Anzi. Sui radical-chic palpitanti per certi polpettoni televisivi: «Lella e Fausto Bertinotti hanno assistito al trionfo di Vladimir Luxuria, già deputato-deputata di Rifondazione comunista, in una trasmissione fondamentalissima come “L’isola dei famosi”. Marito e moglie si sono commossi e hanno pianto, lasciando una piccola pozza salata di lacrime sul tappeto persiano». Sullo sciopero della fame di Alessandra Mussolini e le sue palpitanti dichiarazioni: «zia Sophia non ha mangiato il dolcetto per amor mio». Su certe megalomanie: «Il nostro elegantissimo viaggiatore di commercio, Silvio Berlusconi, specialista in barzellette e in mikebuongiorni, sogna di essere presidente della Repubblica e se lo diventasse sognerebbe di essere Dio e se lo diventasse di essere un Sopradio». Sulle «feste del dolore italiano», come certe cronache strabilianti a corollario dell’ansia per Giuliana Sgrena, rapita in Iraq, dove il compagno della giornalista del «manifesto» era «basso di statura ma ricchissimo di sentimenti» e parlava con la mano destra in tasca ma «non per posa aristocratica» e nelle piazze appariva infine Pietro Ingrao con «la bella pelle liscia dei novantenni».

Ed è lì che riconosci il piccolo grande miracolo che da anni fa di Pietro Citati uno scrittore amatissimo dai lettori più raffinati, che gli perdonano perfino qualche elitaria puzzetta («un buon museo deve essere piccolo, semivuoto e silenzioso») sotto il naso. La capacità straordinaria di cogliere i dettagli.

Dettagli che in poche parole illuminano una persona, una storia, un mondo. Dai «colombi turchinicci» alle caviglie di un’anziana signora incrociata nelle quotidiane passeggiate a villa Borghese: «Caviglie lunghissime, esilissime, puri filamenti nervosi, quasi rosei, zampe liberty da fenicottero» che lasciavano il mistero su ciò che era stata: «Una ballerina, una donna che ha amato troppo, una romanziera ungherese, la moglie di un proprietario agricolo siciliano, una vergine adamantina…».

Che scriva del catechismo («Strumento efferato, che mi ha fatto odiare il cattolicesimo fino ai venticinque anni, quando ho letto san Paolo e sono stato conquistato e sconvolto») o dei funerali di Stalin («Il comunismo portava alle esequie se stesso, seppellendo il Padre mostruoso e amoroso, col quale si era identificato»), l’autore dell’Elogio del pomodoro riesce sempre a infilare «quel» dettaglio che aiuta a capire come sono cambiati Roma, l’Italia, il mondo. Magari attraverso i ritratti del vecchio barbiere che «aveva i modi e l’eleganza di un principe alla corte di Versailles» o dei fratelli gemelli consacrati al culto pagano della penna stilografica.

Purché, ovvio, si abbia voglia di capirlo. E ci si prenda il tempo necessario: «il tempo non va frustato come un cavallo riottoso; ma rallentato, sfibrato, ingannato, perché solo il tempo lento può venire assaporato con tutti i sensi. C’è sempre tempo: la morte non giunge mai».

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