Addio al giornalista Guerzoni Fu la voce di Aldo Moro

Corrado Guerzoni, che se ne è andato ieri a ottantuno anni, meriterebbe di essere ricordato come giornalista e dirigente di vaglia di una Rai che era ancora la Rai. Della sua concezione della radio scrisse, lasciandola, in un bel libro, «Il valore della parola». La trasmissione che condusse a lungo negli anni Ottanta, Radiodue 3131, anticipò molte delle trasformazioni della radiofonia, ma pure della tv, degli anni successivi.

Corrado Guerzoni, che se ne è andato ieri a ottantuno anni, meriterebbe di essere ricordato come giornalista e dirigente di vaglia di una Rai che era ancora la Rai. Della sua concezione della radio scrisse, lasciandola, in un bel libro, «Il valore della parola». La trasmissione che condusse a lungo negli anni Ottanta, Radiodue 3131, anticipò molte delle trasformazioni della radiofonia, ma pure della tv, degli anni successivi. E di Guerzoni dirigente della Rai si ricorda la refrattarietà alle manovre di potere, al clientelismo, alle raccomandazioni. Resta il fatto però che il giovane democristiano Guerzoni non era ancora trentenne quando, correva l’anno 1959, il segretario della Dc, Aldo Moro, lo scelse come capo del suo ufficio stampa; e, da quel momento, di Moro fu tra i collaboratori più stretti, fidato e fedele, certamente, ma mai cortigiano. E di Guerzoni moroteo in vita e in morte del suo leader è dunque giusto parlare.

Non era davvero semplice fare il portavoce di Moro. A volte toccava immergersi nel ruolo, punto e basta. Nel novembre del ’75 il vertice di Rambouillet non accennava a finire, si faceva tardi, i giornalisti italiani, in cerca di notizie, pressavano Guerzoni. Moro non gliele negò, anzi, gliele mise per iscritto perché le facesse avere alla stampa: «La discussione sta procedendo». E a Guerzoni, per nulla imbarazzato, toccò leggere il foglietto agli inviati dei giornali. Altre volte, ci si poteva far sentire. Marco Follini, che gli è stato amico, lo ricorda bene: la prima stesura del discorso di Aldo Moro in difesa di Luigi Gui sul caso Lockheed, nel ’77, era scritta tutta in punto di diritto, roba da azzeccagarbugli. Quando le segretarie, dopo aver decrittato i geroglifici morotei, finirono di batterla a macchina, e gliela diedero, toccò a Guerzoni insistere con Moro perché la rendesse politicamente più forte e più dura: in un certo senso, quel celebre «Non ci faremo processare nelle piazze» pronunciato da Moro a Montecitorio si deve a lui.

Altre volte, capitava di trovarsi a un passo, e anche meno, da situazioni drammatiche. Nel ’74 Moro, ministro degli Esteri, negli Stati Uniti con il capo dello Stato Giovanni Leone, incontrò Henry Kissinger. «Lui cercava di spiegare la situazione italiana, Kissinger gli rispondeva duramente», mi raccontò anni fa Guerzoni in un’intervista per il Corriere: «A un certo punto, tagliò corto: “Se fossi cattolico, come lei, crederei anche nel dogma dell’Immacolata Concezione. Ma non sono cattolico, e non credo né a questo dogma né all’evoluzione democratica dei comunisti italiani”… Di ritorno a Roma, mi chiamò e mi disse: “Cominci a far circolare nei giornali la notizia che io intendo abbandonare la politica attiva”. Non andò così, in estate divenne presidente del Consiglio».

Guerzoni non smise mai di pensare che il rapimento e l’assassinio di Moro non fossero una storia tutta italiana: «Moro lo hanno sequestrato le Brigate Rosse, ma in accordo, di fatto, con i nemici interni e internazionali della sua politica. Una specie di appalto». I 55 terribili giorni del sequestro lo avevano segnato in modo indelebile, pensava che fossero in troppi a non volere la verità. Militava nel «partito della trattativa»? No, alla Dc, sosteneva, chiedevamo solo di essere flessibile, pronta a sondare tutte le possibilità. E invece «sembrava che si aspettasse l’ineluttabile. Nicola Rana ed io eravamo considerati gli ambasciatori del “partito della famiglia”, pareva che il principale desiderio di Ugo Pecchioli fosse quello di vederci in galera». Forse ancora più duro era il suo giudizio sulla Dc, che quella linea dai comunisti si lasciò imporre, e su Giulio Andreotti. E dubitativo in fondo era anche quello su Paolo VI, che si sarebbe lasciato convincere a inserire nella sua lettera «agli uomini delle Brigate Rosse» quell’esortazione a liberare il prigioniero «senza condizione alcuna» che toglieva, di fatto, efficacia pratica all’appello.

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