Corpi seminudi e gesti impercettibili per elaborare i dolori dell’era sovietica

MOSTRE Fino al 2 ottobre «Ostalgia» al New Museum di New York

MOSTRE Fino al 2 ottobre «Ostalgia» al New Museum di New York

 Alcuni anni dopo l’euforia per la caduta del muro, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del decennio successivo, una parte di Berlino si è ritrovata improvvisamente a vivere uno strano lutto a scoppio ritardato: la nostalgia per la vita nella Ddr. È il fenomeno cosiddetto della Ostalgie, un neologismo composto dai termini tedeschi per Est (Ost) e nostalgia (nostalgie). Opportunamente adattato all’inglese – Ostalgia – il termine è diventato il titolo di una delle mostre più interessanti organizzate negli ultimi anni al New Museum di New York da uno dei suoi direttori, Massimiliano Gioni. La mostra, che chiuderà i battenti il 2 ottobre prossimo dopo essere stata prolungata per via del successo riscosso, mette insieme cinquanta artisti di diverse generazioni, provenienti da una ventina di paesi dell’Europa dell’Est e dell’ex-Unione Sovietica, artisti che hanno vissuto e rappresentato in modi differenti il crollo del blocco comunista e le sue conseguenze.

Al contrario di quanto sembra promettere il titolo, la nostalgia è però quasi completamente assente da questa mostra, tanto che sarebbe più appropriato leggere il termine ostalgia in maniera letterale come generico «dolore dell’Est», un male storico localizzato geograficamente e declinato con sfumature originali da ognuno degli artisti presentati. Una delle opere più affascinanti della mostra è l’album di circa duecento fotografie di famiglia in cui l’artista polacca Aneta Grzeszykowska ha cancellato, con mezzi digitali, la propria presenza di bambina e poi di adolescente, in una forma di auto-censura della propria esistenza nella Varsavia degli anni precedenti la vittoria di Walesa. Più che un senso di nostalgia, quest’opera comunica il desiderio di una storia (personale e politica) differente e il bisogno di elaborare dall’esterno un passato doloroso. Un dolore che, nel caso dall’artista serbo Mladen Stilinovic, è diventato l’unico termine di espressione possibile, tanto da fargli coprire con un bianchetto le definizioni di pagine e pagine di dizionario, sostituendole con un’unica parola: «PAIN» (dolore).
Il linguaggio, e in particolar modo il linguaggio della propaganda di Stato, riveste un ruolo importante per molti degli artisti presenti nella mostra. Si va dalle splendide poesie concrete del russo Dmitri Prigov, composte riscrivendo a macchina i dispacci giornalistici delle agenzie governative, agli slogan surreali ed enigmatici di Andrei Monastyrski, riprodotti su enormi cartelli in sfida alla censura. Anche la fotografia, un tempo non considerata come forma di arte autonoma dall’establishment culturale sovietico e dunque meno sottoposta a forme di controllo, è uno dei mezzi espressivi maggiormente impiegati. Da un lato ci sono le ottanta foto a colori dell’ucraino Boris Mikahilov, realizzate tra gli anni ’60 e ’70, che offrono, spesso indugiando sull’imperfezione dei corpi e su dettagli marcatamente sessuali, una rappresentazione priva di ogni idealismo della vita quotidiana ai tempi di Brezhnev. Dall’altro i ritratti in bianco e nero di Nikolay Bahharev, famiglie russe di bagnanti che – facendosi riprendere seminude sulla spiaggia – documentano una forma d’innocente trasgressione alla rigida morale della censura sovietica.
Proprio il corpo, in quanto «grande attore utopico» (secondo una bella definizione di Foucault) è stato impiegato da molti degli artisti di Ostalgia come strumento di resistenza e creazione. Ad esempio, il ceco Jirí Kovanda, dopo l’occupazione sovietica di Praga successiva alla primavera del ’68, ha iniziato a realizzare una serie di performance al limite della visibilità. Si tratta per lo più di gesti di disturbo dell’ordine pubblico quasi impercettibili – come lo stare in piedi a braccia aperte in mezzo alla folla dei passanti – ma che ritagliano uno spazio di libertà soggettiva all’interno di un contesto sociale altamente controllato.
L’impressione complessiva generata da Ostalgia non è quella di un bisogno di ritornare al passato, ma – come nell’opera dell’artista kosovaro Petrit Halilaj, che dopo la distruzione del museo di storia naturale di Pristina ha recuperato e documentato fotograficamente il contenuto di alcune teche entomologiche finite tra i rifiuti – di fare i conti con l’inevitabile amnesia storica. Le opere esposte in Ostalgia non sono infatti il segno di un atteggiamento nostalgico ma piuttosto un monito: un deciso segnale che ricorda come il futuro, per essere tale, non può che essere costruito sull’elaborazione critica del passato.

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