Ragazzi smarriti nella (anti)città 

BIRMINGHAM BLUES
In un libro uscito da poco per Laterza, Stefano Boeri indaga il flusso di energie che frantuma la società  urbana della tradizione. E insieme ad altri titoli recenti fornisce una chiave per comprendere i «riots» della scorsa estate

BIRMINGHAM BLUES
In un libro uscito da poco per Laterza, Stefano Boeri indaga il flusso di energie che frantuma la società  urbana della tradizione. E insieme ad altri titoli recenti fornisce una chiave per comprendere i «riots» della scorsa estate

 Nel torrido agosto del 2011, sono scoppiati in alcuni quartieri londinesi dei violenti scontri interrazziali durati diversi giorni. Ci sono stati scontri anche in altre città inglesi, ma più di tutte, a prendere simbolicamente fuoco è stata Birmingham, almeno per quanto dimostra la crudele contabilità dei giovani morti rispetto a Londra: tre a due. Su quello che stava accadendo i media hanno fornito molte interpretazioni a caldo, ma ora, a distanza di alcune settimane, è possibile riflettere in modo più approfondito sulle cause che hanno portato a questi avvenimenti. E, soprattutto, si può ragionare sugli scontri facendo ricorso alle analisi presenti in alcuni libri pubblicati di recente.

Spinte contrapposte
Sul piano simbolico, il fatto che gli scontri sociali scoppiati in agosto si siano concentrati soprattutto a Birmingham rappresenta una curiosa nemesi storica. All’università di Birmingham infatti è nata e si è sviluppata la più importante scuola sociologica inglese del dopoguerra. Una scuola che ha messo al centro della sua analisi gli spettacolari stili espressivi delle sottoculture giovanili (dai mods ai punk) e ha fornito la più efficace spiegazione teorica delle ragioni che si trovano alla base della nascita e del funzionamento di tali sottoculture. L’epoca d’oro della Scuola di Birmingham è durata però dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. E forse non è un caso che la sua crisi sia cominciata con l’esaurirsi di quell’energia sociale che aveva portato dagli anni Cinquanta in poi molti giovani inglesi a dare vita a sottoculture particolarmente clamorose e innovative.
Secondo la Scuola di Birmingham, le sottoculture rappresentavano la risposta che i giovani tentavano di dare alle spinte contrapposte che ricevevano nella particolare situazione sociale in cui si trovavano. Le sottoculture erano cioè un tentativo di risolvere la contraddizione sperimentata dai giovani tra il puritanesimo tradizionalmente condiviso dalla classe operaia dei loro genitori e il nuovo edonismo proposto da quel mondo del consumo che cominciava a circondarli grazie al boom economico di quegli anni.
Un processo di sintesi
I mods erano da questo punto di vista esemplari. Il volume di Terry Rawlings Mod. Una vita pulita in circostanze difficili (Arcana, pp. 288, euro 25) mostra molto bene attraverso le sue fotografie le principali caratteristiche di questa sottocultura. In essa venivano impiegati un linguaggio gergale e dei rituali che facevano riferimento ai valori tradizionali della cultura dei genitori, mentre gli abiti e le scelte musicali rispecchiavano l’immagine edonistica del nuovo consumatore affluente.
Le sottoculture nascevano pertanto da un processo di sintesi tra le forme di adattamento/resistenza elaborate dai genitori e quelle dei loro figli. Grazie alla sottocultura, il disagio dei giovani veniva generalmente incanalato in uno spazio non pericoloso per la società e in qualche misura indebolito rispetto alla carica potenzialmente distruttiva che poteva contenere. Veniva trasformato cioè in una forma di opposizione di tipo simbolico, ma conservava comunque, secondo l’interpretazione della Scuola di Birmingham, una volontà di contrapposizione sociale in grado di trasformarsi anche in movimento politico di protesta.
Oggi le sottoculture inglesi che sono state studiate dalla Scuola di Birmingham sono diventate meno visibili nella società oppure si sono fatte pop, puri fenomeni di consumo intrecciati con le dinamiche dell’industria culturale. Pertanto, se l’interpretazione degli studiosi della Birmingham School è corretta, è venuta meno anche quella capacità che esse possedevano di funzionare come «ammortizzatori sociali», cioè di ridurre l’impatto dei conflitti tra i giovani e la società. Il che rappresenta una delle ragioni fondamentali dei violenti scontri scoppiati in agosto a Birmingham e nel resto dell’Inghilterra. È utile pertanto cercare di capire perché tali sottoculture sono andate progressivamente indebolendosi.
Il declino del grunge
Nel volume Dalla lambretta allo skateboard (Edizioni Unicopli, pp. 218, euro 13) Roberto Pedretti ha messo in luce come oggi siano nate nuove sottoculture le quali, pur non ponendosi in opposizione sistema capitalistico ma al suo interno, sono comunque in grado di dare vita a nuove forme di resistenza sociale, rifiutando ad esempio il modello sportivo competitivo e professionistico e l’invadenza delle marche oppure riappropriandosi creativamente degli spazi urbani. Lo fanno, ad esempio, gli skaters o i praticanti del parkour. Si tratta tuttavia di fenomeni poco rilevanti sul piano sociale. Sotto questo aspetto, probabilmente l’ultima sottocultura a possedere le caratteristiche individuate dagli studiosi di Birmingham è stata quella grunge.
Apparso a Seattle nei primi anni Novanta, il grunge ha dato vita a gruppi musicali come i Nirvana e i Pearl Jam, ma è stato rapidamente cancellato dal sistematico «saccheggio» che ne hanno fatto i media e l’industria della moda. Da allora sono passati circa vent’anni. Che fine hanno fatto le sottoculture in questo lungo periodo? In parte si sono nascoste. Hanno preso coscienza dei processi di sfruttamento commerciale e mediatico che la società sviluppa abitualmente nei loro confronti e per sfuggire ad essi si sono trasferite in spazi sociali fisici e digitali nei quali è difficile vederle.
Ma probabilmente va anche considerato che hanno esaurito in parte il loro ruolo storico. Prima di tutto perché si è affievolito quel conflitto sociale da cui nascevano, cioè quello tra la cultura puritana della classe operaia e la nuova società affluente, in quanto si è indebolito uno dei due contendenti: la classe operaia. Con la crisi del modello industriale fordista e il passaggio del capitalismo occidentale al modello postfordista, basato principalmente sul commercio e sui servizi, la classe operaia ha infatti visto ridotta la propria importanza sul piano sociale.
Identità eclettiche
Un altro dei problemi che le sottoculture sono costrette oggi ad affrontare è costituito dalle loro difficoltà nell’esprimere uno specifico stile espressivo omogeneo e chiaramente definito. Negli ultimi anni, infatti, le società occidentali sono entrate in una fase in cui a dominare sono la frammentarietà, la transitorietà, la molteplicità e il proliferare di segni istantanei. Ai giovani non resta allora che la possibilità di una combinazione infinita di materiali espressivi, un’identità eclettica e ibrida. Un’identità pertanto difficilmente classificabile come i giovani desiderano, ma, proprio per questo, anche disorientata al momento di produrre riconoscibilità e coinvolgimento di gruppo.
Oggi inoltre appare estremamente difficile sfuggire all’egemonia esercitata sull’immaginario sociale dai linguaggi delle marche e del consumo. Certo, i giovani hanno imparato a reinterpretare i significati di questi linguaggi, pur continuando a rimanere al loro interno. Ma è evidente che si sviluppa comunque un territorio “vischioso” dove i linguaggi delle sottoculture e quelli delle marche si mescolano in continuazione.
Un tessuto in mutamento
Una ricerca di Emanuela Mora, contenuta nel suo volume Fare moda. Esperienze di produzione e consumo (Bruno Mondadori, pp. 200, euro 17), ha dimostrato che il rapporto dei giovani italiani con l’abbigliamento è fortemente dipendente dalle regole imposte dalle marche e dal mercato. E anche in Inghilterra ciò risulta chiaro in diverse sottoculture giovanili degli ultimi anni, che hanno sviluppato uno stile espressivo principalmente caratterizzato dall’impiego di prodotti firmati di varie marche.
Dunque, gli stili delle sottoculture si confondono con altri presenti nella società. Ma, in un’era in cui tutti – individui e gruppi sociali – devono esibirsi pubblicamente e sono costretti a mettere «in vetrina» anche il loro corpo e il loro privato, le sottoculture vedono inevitabilmente esaurirsi gran parte della loro funzione sociale. Quello che è successo a Birmingham si deve però necessariamente spiegare anche con i cambiamenti intervenuti nel tessuto economico e sociale di questa città inglese, cioè con l’impatto rilevantissimo che qui hanno avuto la delocalizzazione della produzione in altre aree del pianeta e la chiusura di fabbriche importanti, come ad esempio la MG Rover.
Flussi di energia
Non dimentichiamo che proprio a Birmingham esisteva dal XII secolo il Bull Ring, il più antico mercato d’Inghilterra. Oggi nella zona del Bull Ring ci sono per lo più negozi e grandi magazzini. E il posto di tale mercato è stato simbolicamente preso da un grande magazzino che ne ha assunto anche il nome: Selfridges Bullring, un gigantesco «salsicciotto» ricoperto da quindicimila specchietti circolari di alluminio – un sorprendente edificio firmato dagli «archistar» dello studio Future System e realizzato in un centro cittadino che è stato oggetto di una vasta operazione di «pulizia urbanistica», con il restauro di strade storiche, la creazione di nuove piazze e soprattutto l’apertura di negozi delle grandi marche globali al posto di quelli tradizionali.
Insomma, come in buona parte delle città d’Inghilterra e d’Europa (Italia compresa), il centro storico è stato privato di un’identità costruita nel corso dei secoli e fatta di luoghi, edifici, comportamenti e rituali entrati progressivamente a far parte di un patrimonio culturale comune. Si è creato così un vuoto che è stato riempito da quella che Stefano Boeri ha chiamato «anticittà» nel libro dal titolo omonimo (Laterza, pp. 156, euro 12): un flusso di energia che va sempre più dilagando e a mano a mano frammenta la società urbana tradizionale, cancellando le differenze tra centro e periferia e annullando i confini tra città e campagna. Ma anche un flusso che va mescolandosi con la cultura del consumo, la quale si propone attualmente in forme praticamente identiche in tutte le città occidentali. È però su tale cultura che le persone sono andate sempre più a costruire la propria identità, anziché fare riferimento a uno specifico patrimonio culturale consolidato nel tempo.
Low cost society
Ci si sente cittadini, insomma, solamente se si consuma. Come ha messo in luce Nello Barile in Sistema moda (Egea, pp. 186, euro 19.50), questo fenomeno è legato anche al fatto che al progressivo sfaldarsi della classe media si è risposto con un modello low cost che propone una grande varietà di scelte di consumo ma di livello decisamente inferiore. Si è sviluppata così una «low cost society» dove l’abbassamento della qualità consente l’accesso ai beni da parte di una vera e propria moltitudine di consumatori. Ma se a causa della crisi economica il denaro per fare shopping viene a scarseggiare, ecco che le persone sentono di avere comunque il diritto di possedere quei beni che continuano a tentarli ogni giorno dalle vetrine e dai messaggi pubblicitari. Anche, se necessario, con mezzi illegali e violenti, come è successo in Inghilterra. Altrimenti non si è cittadini a pieno titolo.
Londra, certo, è una grande metropoli e in quanto tale presenta una realtà sociale molto differente da quella dei nostri centri urbani, anche i più grandi, come Roma o Milano. Ma Birmingham, con il suo milione di abitanti, può presentare non pochi punti di contatto con le città italiane. Nelle quali è avvenuto negli ultimi anni lo stesso processo di «svuotamento» del centro storico e di messa in crisi dell’identità tradizionale, sostituita anche in questo caso dalla cultura del consumo.

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