Gli amici di Peppino si allarmarono molto quando scoprirono che il loro compagno non era mai arrivato a casa. Era uscito dalla redazione di RadioAut, a Partinico, per tornare a cena da mamma Felicia a bordo della sua auto. Le ricerche cominciarono ben presto, nella serata stessa del 9 maggio 1978, perché gli amici erano già in allarme per una soffiata ricevuta che segnalava come il giovane attivista antimafia fosse in pericolo.
Gli amici di Peppino si allarmarono molto quando scoprirono che il loro compagno non era mai arrivato a casa. Era uscito dalla redazione di RadioAut, a Partinico, per tornare a cena da mamma Felicia a bordo della sua auto. Le ricerche cominciarono ben presto, nella serata stessa del 9 maggio 1978, perché gli amici erano già in allarme per una soffiata ricevuta che segnalava come il giovane attivista antimafia fosse in pericolo. Nessuno però sospettava che il rischio fosse così immediato e letale. Peppino fu ritrovato cadavere su un binario della ferrovia nelle campagne di Cinisi con una carica di tritolo legata al corpo. Ci vorranno anni di battaglia della famiglia e degli amici per sconfiggere depistaggi istituzionali, coperture e omertà e far emergere la verità: Peppino era stato ucciso su ordine del boss Badalamenti, il «don Tano seduto» delle trasmissioni satiriche di RadioAut e del film di Marco Tullio Giordana «I cento passi», capo indiscusso di Cosa Nostra residente a pochi metri di distanza da casa Impastato sullo stesso corso centrale di Cinisi, e non era morto nel tentativo di preparare un attentato a un treno. Volevano farlo passare per un estremista pericoloso, non ci sono riusciti. In questi giorni il fratello minore Giovanni, che da allora non ha smesso per un giorno di fare politica sul territorio e in giro per l’Italia raccogliendone il testimone, è ritornato sul luogo del delitto: un casolare di campagna dove Peppino fu torturato e poi brutalmente assassinato. In un paese normale sarebbe diventato già da tempo un luogo della memoria, un museo a perenne ricordo dell’atrocità compiuta e a riconoscimento della vittoria postuma della meglio gioventù di allora sulla peggiore Sicilia.
L’appello
Nulla di tutto ciò. Il casolare rimane diroccato e abbandonato, ridotto a una discarica per giunta abusiva, meta esclusivamente di un pellegrinaggio laico di chi sente di condividere con Peppino Impastato ideali e battaglie. Il Comune sarebbe dovuto intervenire per espropriare l’area e realizzare un luogo della memoria, ma in cassa non ci sono soldi e non se n’è fatto niente. Per questo Giovanni, che di Peppino ha ereditato la voglia di combattere a viso aperto e senza timori, è tornato lì e ha appiccato un cartello alle mura della casa: «Vergogna, non avete rispetto per questo luogo». «Provo rabbia nel vedere questo luogo dimenticato dallo Stato e oltraggiato da chi ancora considera mio fratello come un personaggio scomodo», dice senza peli sulla lingua. Tutto ciò nonostante i commissari prefettizi arrivati a sostituire le amministrazioni sciolte per mafia abbiano vincolato l’area. Ora Giovanni lancia un appello che, lo ripetiamo, in un Paese normale non ci sarebbe stato bisogno alcuno di lanciare: «Salviamo il casolare e tutto ciò che qui attorno conserva ancora l’ultimo respiro di Peppino». Il giorno dei funerali divennero simbolo dell’omertà le porte e finanche le tapparelle chiuse al passaggio del mini-corteo funebre guidato dagli amici. Possibile che 33 anni dopo nessuno abbia avuto il coraggio di rialzarle?
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