Da Carocci «L’Africa d’Italia» di Gian Paolo Calchi Novati
Da Carocci «L’Africa d’Italia» di Gian Paolo Calchi Novati
Il colonialismo capitalista è il regno delle conseguenze non volute, il caso da manuale per illustrare la natura sistemica della storia umana, per esemplificare il concetto di retroazione (feedback). Infatti nel 1830 la Francia cominciò la sua vittoriosa penetrazione in Algeria e poi in Africa nera e conquistò un impero. Ma il risultato di questa conquista fu che oggi non vi è quasi più un francese in Africa (e in Algeria), mentre in Francia ci sono milioni di africani e di algerini. Similmente, nel 1857 la Gran Bretagna represse in India la rivoltà dei sepoys e dette inizio all’impero (raj) inglese sul subcontinente. Ma oggi, 154 anni dopo, non c’è più un inglese in India, mentre ci sono milioni di indiani in Inghilterra. Questo «effetto non voluto» è comune a tutti i colonialismi d’era capitalista (non a quelli precapitalisti, come il colonialismo spagnolo nelle Americhe che mai generò un flusso di indios nella penisola iberica). Così l’Olanda è piena di surinamesi e di amboniani delle Molucche.
L’Italia costituisce l’unica eccezione a questa regola: nella nostra penisola somali, eritrei, etiopici e libici costituiscono una piccolissima minoranza della popolazione immigrata. Nessuno di questi paesi rientra infatti nella lista delle prime venti nazioni di origine delle immigrazioni in Italia: le prime dieci sono nell’ordine Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Polonia, Moldavia e Tunisia che forniscono circa 3 milioni sui 5,5 milioni di stranieri presenti nel nostro territorio (stima del 2011).
Già quest’anomalia rispetto agli altri retaggi coloniali mostra quanto sia atipico il nostro «impero» africano e mediterraneo. Una anomalia del colonialismo italiano analizzata a fondo del volume L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale (Carocci, pp. 442, euro 26,40) firmato e diretto da Gian Paolo Calchi Novati, con il contributo di altri dieci studiosi e studiose italiani/e. Quest’opera vuole essere una storia e insieme una metastoria, narrare la colonizzazione italiana ed esaminare l’evolversi della storiografia del colonialismo italiano fino al 1960, quando la Somalia si emancipò dall’amministrazione fiduciaria italiana (tutto un capitolo è tra l’altro dedicato all’immagine letteraria delle colonie).
L’anomalia della colonizzazione italiana sta innanzitutto nel fatto che essa non fu pienamente capitalista, poiché l’Italia l’intraprese (negli anni ’80 del XIX secolo in Eritrea) quando la nostra era un’economia nazionale prevalentemente agricola, l’industrializzazione era ancora agli albori e quando l’emigrazione dal nostro paese era massiccia (nei soli Stati uniti migrarono 650.000 italiani nel decennio 1891-1900; più di due milioni tra il 1901 e il 1910; e 890.000 nei soli quattro anni 1911-1914). E infatti il nostro fu l’unico esercito coloniale che subì tante disastrose sconfitte in Africa: Dogali (1887), Macalle e Amba Alagi (1895), Adua (18969.
La seconda anomalia fu la straordinaria brevità dell’avventura coloniale italiana. In Etiopia l’impero durò addirittura soli cinque anni (dal 1936 al 1941)! Ma anche nel territorio in cui siamo rimasti più a lungo, cioè l’Eritrea (la «colonia primogenita»), l’arco temporale fu appena superiore al mezzo secolo. In compenso L’Africa d’Italia ci ricorda che il Ministero dell’Africa italiana sopravvisse per altri otto anni alla seconda guerra mondiale e fu chiuso solo nel 1953.
E solo molto più tardi l’Italia ha cominciato a fare i conti con il suo passato coloniale e le sue nefandezze (e non fino in fondo): ancora nel 1998 il testo dell’accordo Italia-Libia non riusciva a usare il termine «deportati libici» ma ricorreva a circonlocuzioni come «allontanati coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale».
Molto rimane rimosso. Per esempio noi associamo le leggi razziali del 1938 solo agli ebrei, ma in realtà esse furono formulate anche per segregare le colonie. «Nel 1937 un decreto vietò le unioni miste.. La dipendenza delle truppe italiane dalle donne etiopiche era un fattore di disturbo inaccettabile per le autorità fasciste, quasi che i conquistatori fossero stati a loro volta conquistati dalla popolazione locale attraverso il sesso debole… la cultura dominante ebbe sempre un atteggiamento di rifiuto e di disprezzo per il cosiddetti “insabbiati”, i civili e i militari che sceglievano di staccarsi materialmente e psicologicamente dalla madrepatria per adottare i modi di vita africani».
Il fatto che gran parte della nostra avventtura coloniale sia avvenuta sotto il – e fortemente voluta dal – fascismo costituisce una terza anomalia italiana. È impressionante il mare di cazzate che si possono dire impunemente in una certa epoca senza che nessuno lo noti (chissà quante delle nostre certezze appariranno idiote tra pochi anni!). Ecco cosa scriveva Benito Mussolini il primo gennaio 1919: «L’imperialismo è la legge eterna e immutabile della vita». Ma proprio il fascismo ha ostacolato i conti con il colonialismo italiano perché i vari revisionismi s’influenzano l’un l’altro.
D’altra parte anche gli autori di Africa d’Italia possono lasciarsi prendere la mano: ecco come descrivono gli insediamenti agricoli fascisti in Libia: al centro la piazza con il municipio, la chiesa, la casa del fascio, le poste e le case coloniche a irradiarsi: «Lo stile architettonico era purissimo, improntato a quella semplicità e funzionalità di disegno che caratterizzavano il moderno razionalismo. L’effetto, il bianco dei villaggi che si stagliava fra cielo e terra, era novevole, e dava realmente il senso di una nuova civiltà in amrcia».
A propositro di civiltà: in questo momento in cui il capo del comitato di transizione libico annuncia che governerà «in nome dell’Islam», è più che opportuna la sottolineatura nel volume del cosiddetto «paradosso francese» e cioè che la laica repubblica francese non ha mai esportato in Africa la sua laicità (che «non è un prodotto d’esportazione», disse Léon Gambetta) e che invece gli imperi razionalisti europei si siano affidati ai culti e alle religioni come cinghia di trasmissione del loro dominio. In particolare l’Italia fece molto affidamento sull’Islam (in funzione anti-copta in Etiopia) o per soppiantare i culti animisti, definiti «primitivi con manifestazioni di civiltà assolutamente rudimentali» (Come disse Leone XIII a missionari in partenza per il Kenya: «Fateli prima uomini quei poveri indigeni e vi sarà più facile farne dei cristiani»). Insomma, come avviene con gli immigrati nell’Occidente odierno, anche allora, nelle colonie, il prestigio dell’Islam fu accresciuto dal ruolo d’intermediario e interlocutore del potere coloniale che gli fu riconosciuto.
Ma non mancano sprazzi d’inattesa modernità. Così per promuovere il turismo in Libia, l’Ente turistico alberghiero della Libia lanciò una «corsa automobilistica abbianata alla Loterria di Tripoli, l’Avioraduno sahariano, la Mille Miglia libica (sulla litoranea da Tripoli a Tobruk), il raduno automobilistico del Nord Africa, il premio letterario Bagutta-Tripoli e gli spettacoli classici nel teatro romano di Sabratha». Insomma, avevano inventato la nostra Parigi-Dakar.
Se un appunto si può fare a questo volume che a ragione ambisce a darci un panorama completo dello stato dell’arte sugli studi del colonialismo e post-coplonialismo italiano, è che manca un capitolo sul dopo 1960, cioè sugli effetti del colonialismo italiano «senza italiani», quel che resta della nostra avventura. Ma c’è sempre qualcosa che manca in un libro, e in questo è davvero poco.
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