LA ROTTA D’EUROPA
La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del “keynesismo privatizzato”. Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht
LA ROTTA D’EUROPA
La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del “keynesismo privatizzato”. Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht
Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria discenderebbe dalla fiducia nel ‘liberismo’. Il problema sarebbe la frattura con la linea Roosevelt-Keynes-Beveridge, materializzatasi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali. È la vulgata ‘regolazionista’. Lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro.
È un quadro non convincente. Cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel New Deal. C’era l’Unione Sovietica, e la memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata a una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e relativo) vennero conquistati, furono strappati con la lotta.
La politica economica che ne seguì corrispose per qualche anno allo stilema del ‘monetarismo’. L’esplosione del doppio disavanzo negli Stati Uniti all’epoca del secondo Reagan fece da potente controtendenza politica alla tendenza alla stagnazione interna, e da traino alla domanda estera. Si andava costituendo quel money manager capitalism di cui parla Minsky, e di cui Greenspan è stato il profeta. Quel ‘keynesismo privatizzato’ su cui si è retta la fase dinamica del neoliberismo. Nell’area anglosassone la domanda veniva dal consumo a debito, grazie alla ‘sussunzione reale’ del lavoro alla finanza. I fondi istituzionali determinano una accelerata inflazione dei capital asset. Questi ultimi fanno da ‘collaterale’ al credito alle famiglie. La politica monetaria si fa espansiva, e la banca centrale diviene prestatore ‘di prima istanza’. I tassi di interesse si orientano sempre più alla riduzione. Ritorna il pieno impiego: ma è una piena sotto-occupazione di lavoratori precarizzati.
È questo stesso meccanismo che ha fornito domanda ai ‘neomercantilismi’. Si è trattato di un regime politico molto attivo. Potente nello stimolo alla domanda e alla produzione, proprio grazie alla finanza tossica. L’accumulazione del capitale non è avvenuta a dispetto ma in forza del neofeudalesimo e della rendita pervasivi del ‘nuovo capitalismo’.
L’idea che il Trattato di Maastricht discenda dal collasso del socialismo reale, e che l’euro sia in continuità con quel Trattato è infondata. Il progetto di Delors sta dentro l’Europa divisa dalla cortina di ferro. Era un progetto francese più che tedesco. Il crollo del muro fece saltare quel disegno. L’euro fu partorito non dalla forza ma dalla debolezza della Germania negli anni Novanta, e fu determinante la rinnovata vitalità dell’economia statunitense, con la sua capacità di trainare, con il consumo indebitato, anche l’Europa. Alla Germania non restava che riproporre il gioco del pretendere quanti più vincoli possibili. Il progetto di unificazione monetaria è stato l’alibi per imporre ‘con le mani legate’ le politiche di classe che sarebbero state portate avanti – comunque.
L’euro nasceva con un vizio di origine. In un’area strutturalmente disomogenea come quella europea, con radicali disparità nella forza produttiva del lavoro e nelle infrastrutture materiali e immateriali, un progetto di convergenza nominale produce un approfondimento della divergenza reale. Quest’ultima può essere attutita soltanto con una politica fiscale comune. L’asse della dinamica a più velocità del continente europeo è la crescita dell’area ‘forte’ attorno alla Germania. A tirare sono le esportazioni nette, e i profitti vengono reinvestiti all’estero. Con l’affermarsi del ‘nuovo capitalismo’ quegli investimenti si sono però andati rivolgendo sempre più alla finanza ‘tossica’. Anche a quella interna all’Europa, dove i titoli di stato della periferia hanno svolto un ruolo analogo ai subprime negli Stati Uniti. La Germania, come i suoi ‘satelliti’ e il resto del Nord-Europa, hanno storicamente bisogno di esportare nel resto dell’Europa. I disavanzi commerciali del Sud-Europa la aiutano anche perché rendono il cambio nominale dell’euro meno elevato di quanto sarebbe con il marco, o un euro ristretto ai ‘satelliti’. La moneta unica dà inoltre luogo ad una svalutazione reale di cui gode l’area forte. Come negli anni Novanta, anche nell’ultimo decennio la posizione neomercantilista dell’Europa si è continuata a ‘chiudere’ grazie al traino della locomotiva americana, benché sempre meno potente.
In questo neoliberismo non liberista gli squilibri finanziari e commerciali rendevano per molto l’economia più ‘resiliente’. La stessa finanza pubblica non preoccupava granché. Erano in alcuni casi i disavanzi a contrastare la tendenza recessiva originata dalla Germania. Il ‘dramma’ del debito pubblico non dovrebbe essere messo in scena nemmeno oggi. Disavanzo e debito sul Pil sono inferiori per l’Europa dell’euro rispetto agli Stati Uniti o al Giappone.
Come la domanda e la (poca) crescita, così lo scoppio della crisi europea, e di rimbalzo l’esplosione del suo debito pubblico, sono stati del tutto etero-determinati. È il crollo del ‘keynesismo privatizzato’ che si è portato dietro l’Europa. Non che la Bce segua alla lettera le sue prescrizioni ‘monetariste’, né che le istituzioni europee siano inattive. Il problema è che quando operano nella direzione di un sostegno all’economia, o ai debiti pubblici, o si impegnano ad una modifica dell’architettura istituzionale della moneta unica, lo fanno del tutto reattivamente, sull’onda della crisi. L’idea che una istituzione di sostegno finanziario alle aree in crisi si farà ‘per la forza delle cose’, così come l’altra che si metterà in piedi una redistribuzione fiscale su scala continentale, non è affatto falsa. È che si agisce troppo tardi, facendo troppo poco. E quando la crisi investe l’Italia, il salto di quantità diventa un salto di qualità.
Il colpevole della crisi europea non è l’indebitamento pubblico di un particolare paese. Quello che conta è la volontà o meno della banca centrale rilevante, qui quella europea, di rifinanziare i disavanzi dello Stato. Se il ‘fallimento’ viene escluso come soluzione, la via d’uscita sta nella alternativa, o nella combinazione, di inflazione e crescita. L’inflazione è oggi impedita dalla stessa crisi, ma prima o poi tornerà attraente. La crescita viene sabotata all’interno dalle politiche europee, mentre la domanda esterna va svanendo. Resta solo la deflazione da debiti. Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe meglio uscire dall’euro. L’evoluzione della situazione potrebbe portare a una dissoluzione della moneta unica. Allo stato delle cose è però un consiglio della disperazione. Basterebbe ricordarsi dello stesso caso italiano dei primi anni Novanta, e come ne è uscito il lavoro.
Esisteva una alternativa? Suzanne de Brunhoff aveva tempestivamente suggerito di introdurre non una ‘moneta unica’ circolante tra il pubblico, ma una ‘moneta comune’: una moneta di riserva per le regolazione dei saldi tra banche centrali europee, dentro un accordo di cambi fissi. Fissi, ma aggiustabili: con modifiche delle parità nell’eventualità di deficit commerciali permanenti di alcuni paesi, con un impegno simmetrico da parte dei paesi in surplus alla riduzione dei loro avanzi. E già nel 1992 Jean-Luc Gaffard, aveva ricordato il ‘paradosso della produttività’. Un salto di produttività richiede un previo finanziamento: la nuova produzione scaturisce solo successivamente. La convergenza reale tra le economie europee avrebbe richiesto politiche opposte a quelle di Maastricht: creazione di credito a sostegno dell’innovazione privata; crescita di disavanzi statali ‘produttivi’. Inizialmente, l’una e gli altri non possono che dar luogo a più elevata inflazione e ad un innalzamento del rapporto debito/PIL. L’aumento dei prezzi e lo ‘squilibrio’ fiscale saranno però riassorbiti al successo di quelle misure e di quelle politiche.
Occorre – simultaneamente alla stabilizzazione finanziaria, alla reflazione della domanda, al sostegno al salario e al reddito – un intervento sull’offerta. Come scrive Yanis Varoufakis, gli eurobond, oltre che consentire di soccorrere a costi contenuti i paesi in difficoltà, devono finanziare una espansione congiunta degli investimenti pubblici su scala europea. Un inedito New Deal che intervenga direttamente sui vincoli strutturali alla crescita, migliorando la qualità del prodotto e innalzando la forza produttiva del lavoro. Strumento di una ‘riforma’, non solo di una ‘ripresa’. Questo apre alla questione della composizione, e non solo del livello, della spesa e della produzione.
Ha ragione Alain Parguez, ci sono disavanzi ‘cattivi’ e disavanzi ‘buoni’. I disavanzi ‘cattivi’ sono il risultato non pianificato del collasso delle economie, delle terapie shock, degli interventi deflazionistici, della insostenibilità della finanza perversa. I disavanzi ‘buoni’ sono pianificati ex ante, il loro scopo è la costituzione di uno stock di risorse utili e produttive. Un investimento di lungo termine in ricchezza tangibile (infrastrutture, riconversione ecologica, mobilità alternativa, etc.) e intangibile (salute, istruzione, ricerca, etc.). Le questioni del genere e della natura divengono cruciali. E il welfare non si esaurisce nella erogazione di sussidi monetari, ma è intervento sui valori d’uso che costituiscono la ‘riproduzione’.
Qui torna utile la riflessione di Minsky sulla ‘socializzazione dell’investimento’, accoppiata ad una ‘socializzazione dell’occupazione’ e ad una ‘socializzazione della banca’. Dobbiamo ripensare un keynesismo del New Deal, tornare alle domande di base: ‘per chi il gioco è fissato’; ‘quale è il tipo prodotto che si vuole’. Una società dove un migliore consumo è trainato dall’investimento pubblico, come motore della domanda autonoma e di un diverso sviluppo. Impossibile, scrive, senza la ‘socializzazione dei quartieri generali’, il consumo come dimensione ‘comune’, il controllo dei capitali, la regolazione della finanza, le banche come public utilities e il loro drastico snellimento. In questa ottica, per Minsky come per Parguez, lo Stato deve provvedere ad una creazione ‘diretta’ di occupazione. Lo dicevano già Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini.
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