Un incontro con lo scrittore bolognese Stefano Tassinari. A partire dal suo ultimo libro, dove si parla di Brian Jones e Francesco Lorusso, e del festival di Parco Lambro. Frammenti di una storia collettiva
Un incontro con lo scrittore bolognese Stefano Tassinari. A partire dal suo ultimo libro, dove si parla di Brian Jones e Francesco Lorusso, e del festival di Parco Lambro. Frammenti di una storia collettiva
Il Tas, così lo chiamano affettuosamente a Bologna, l’ho sempre incontrato con una borsa a tracolla di juta che cammina con passo svelto, i quotidiani sotto il braccio e per compagna la sua inseparabile sigaretta, rollata o afferrata dal pacchetto. Sempre con in mente un libro da scrivere che lo appassiona moltissimo, una rassegna da organizzare per lui di fondamentale importanza e, soprattutto, pieno d’amore per i libri degli altri da farti leggere e da promuovere generosamente con grande verve da intellettuale di frontiera. Amici da invitare, cene da fare, e il culto del mettere insieme, connettere senso, tour faticosissimi come quelli mutuati dalla politica militante che non hanno nulla a che fare con i parterre dei festival. Sempre concentrato sul fare, sulle cose da fare. Può affondare il Titanic ma il Tas taglia il discorso, va dritto dove vuole andare a parare. Lui, il Tas, e cioè Stefano Tassinari, fieramente controcorrente i suoi tour li fa nei luoghi più underground, nei cinemini di una volta, nei centri sociali, laddove c’erano e ancora ci sono i comunisti e la gente, e dove la socialità è ancora forte.
Anche questa estate, tra un viaggio e l’altro, la passa tra Monterubbiano e Pedaso, nelle Marche, insieme a alla pittrice Stefania, compagnia di tutta la vita, che di queste terre ha portato nelle sue tele paesaggi marini e lunari di rara bellezza. Incontrarlo oggi a Fermo nella libreria Ferlinghetti è come incontrare un vecchio amico e accorgersi sempre più dell’importanza che il suo fare significa per molti di noi. Li ama i libri, li sfoglia adesso e controlla le vendite della sua ultima creatura, Letteraria, semestrale di letteratura sociale, che ha inventato e alla quale dà la sua regia intellettuale. Dentro c’è anche il suo pensare, il suo modo di agire, che è anche quello di una generazione che ha creduto nella creatività e nella cultura come grande motore del cambiamento sociale, dentro ci sono i suoi amici, le tante redazioni diffuse di un paese ancora creativo e gauchiste, ci sono i Lucarelli e Wu Ming, i Fois e i Covacich, Carlotto e Arpaia, i grandi fotografi sodali come Mario Dondero, Uliano Lucas o Tano D’Amico, i cineasti e i teatranti, un pezzo di quell’intellettualità della sinistra che non ha mai dismesso il pensiero eretico.
Dentro quella rivista, come nella testa del Tas, ci sono i tanti che hanno ricominciato a nominare ancora una volta il “noi”, o che non hanno mai smesso di farlo. Come nelle cose che ha scritto con una coerenza di modi e temi abbastanza unici nel panorama letterario italiano: “L’ora del ritorno”, “I segni sulla pelle”, “Il vento contro”, “L’amore degli insorti”, tutti consegnati fedelmente all’editore Tropea. Anche dentro questa nuova creatura di carta, Letteraria, ha portato nuovi e vecchi argomenti di cui nessuno parla con tanta profondità di sguardo e di analisi, come il lavoro, la sua epica, o anche il rapporto tra scrittori e potere, sempre con uno sguardo internazionale e internazionalista. Quando ci sediamo sul divanetto nel retro della libreria, Umberto Cecconi, che la gestisce da quasi un anno, sta guardando un documentario su John Lennon. Sì perché qui, oltre ad acquistare libri si può discutere di politica, bere un buon bicchiere di rosso piceno della cooperativa Aurora di Offida, e anche trovare riviste o libri che è difficile acquistare nelle altre librerie. Qui i piccoli editori hanno degli spazi che altrove se li sognano, e le “Poesie operaie” di Luigi Di Ruscio sono un assoluto bestseller.
Il Tas ha caricato intanto la sua pipa. Non può fumarla, ma almeno aspira il sapore umido del tabacco mentre cominciamo la nostra chiacchierata. Il suo ultimo libro è anche una rarità, perché esce nella nuova collana che dirige per Alegre, Scritture resistenti, quindi per la prima volta è anche l’editore di se stesso, e ha un titolo che può apparire un po’ retrò, D’altri tempi, anche se di retrò non ha nulla. Lui ne va molto fiero, e dopo quaranta presentazioni in giro per l’Italia l’ha rodato come una macchina intelligente che ogni volta gli ricorda un passo mancato o un nesso imprevisto. È un libro fortemente congegnato, quasi come un album dei pezzi migliori di un’epoca d’un gruppo musicale di culto. Ma qui non c’è nessuna celebrazione da fare, e nessuna retorica di ritorno, parte nel 1969 e finisce nel 1978 in dieci pezzi difficili, cruciali ed emozionali quanto un’esplosione ininterrotta durata un decennio e oltre, che continua a parlare al presente più che mai, capace come pochi di ricostruire il clima di un’epoca. C’è il mito trasgressivo di Brian Jones, l’ex chitarrista degli amatissimi Stones, ci sono Roberto Franceschi e Francesco Lorusso, barbaramente uccisi dalle forze dell’ordine, c’è il festival del Parco Lambro e anche la tragica storia di Carolyn Lobravico, l’attrice del Living Theater morta nel manicomio giudiziario di Napoli.
I registri sono sempre diversi, e ben si adattano alla drammaturgia delle storie narrate, l’autore usa a volte il monologo interiore, la prima come la terza persona, il reportage di memoria o l’intervista, nel tentativo di carpire senso dal magma della complessità. La sua scrittura è calda e asciutta, senza mai concessioni all’assolo, ma sempre molto ritmata, pulita come lo sguardo di chi narra. In questo modo Stefano Tassinari racconta una storia diversa da quella dei vincenti, e neanche quella dei vinti, che restano pochi, dispersi tra reducismo e apocalisse teorica. Un libro che restituisce con grande umanità quella dei resistenti, delle lotte che non hanno mai smesso di esistere e che, anzi, possono diventare una memoria viva per chi, oggi, voglia sfidare le nuove avversità della Storia. Il Tas non ha dubbi: «L’idea era quella di raccontare quegli anni per frammenti. Perché se da una parte usavamo il noi collettivo, dove c’era una progettualità collettiva, abbiamo anche cercato di salvaguardare la nostra individualità, la nostra diversa soggettività. In fondo chiunque abbia cercato di fare l’affresco degli anni ’70 ha fallito, sia nel teatro, nel cinema, che nella letteratura. Tutti abbiamo raccontato una parte di un puzzle, chiunque potrebbe aggiungere, togliere un tassello, cambiare l’ordine dei racconti, metterne di diversi. Ma sono tutti tentativi che oggi servono per ricostruire un pensiero critico».
Anni gravidi dove ognuno li ha visti con i propri occhi, «anni che se non visti con reducismo», racconta, «con la testa girata verso il passato, hanno una valenza enorme per l’oggi. Ci sono cose non risolte, nodi ancora da sciogliere». Ma quella generazione di donne e uomini del “Vogliamo tutto”, tanto per citare il titolo del celebre romanzo di Nanni Balestrini, stavano sperimentando nuove forme di vita. «Tutto il pensiero della differenza», incalza, «che sta alla base del femminismo, è di grande attualità. Le donne sono tornate in piazza, basti pensare al movimento “Se non ora quando”, oppure il tema della società dei garantiti e dei non garantiti che poneva Asor Rosa negli anni ’70, del precariato, più forte che mai, o le riflessioni di Vittorio Foa su tempi di vita e tempi del lavoro. Sono ancora centrali in un periodo dove i tempi di vita non ci sono quasi più ma, invece, ci sono non solo i lavoratori interinali, ma quelli a chiamata, che stanno la mattina a casa ad aspettare la telefonata e non sanno se lavoreranno il giorno dopo. Per questo oggi è il momento di ritirare fuori quei temi e quegli anni e ripensare una nuova ribellione, una nuova messa in discussione dello stato di cose presenti».
Una generazione, quella degli anni ’70 che aveva provocato una rottura non solo con la generazione dei padri, ma anche con quella dei nonni e dei bisnonni, che non è stata solo quella degli anni di piombo, artatamente narrata dai vincitori. «Per cento anni le generazioni hanno vissuto in modo molto simile, quel movimento giovanile e generazionale, di portata mondiale, ha contribuito alla modernizzazione di un paese pre-moderno, che aveva delle leggi allucinanti, dei codici penali fascisti, mancanze dei diritti sul lavoro e di diritti civili. Sono anni in cui si vince sul divorzio, sull’aborto, sullo Statuto dei lavoratori, si aprono i manicomi, si dà il voto ai diciottenni, si depenalizzano le droghe leggere, si toglie il reato di obiezione al servizio militare. Una generazione creativa che faceva leva sulla cultura, non a caso nel libro scelgo di parlare di un musicista, di un’attrice o dell’apertura dei manicomi, e cioè della rottura di un tabù duro a morire. Poi sono stati anche anni di forte conflitto e di morti, e io racconto quelli nostri, cancellati dalla memoria, più di cento». Anni intensi e anche Anni veloci come quelli raccontati da Carmine Abate, ma che non avevano ancora un’opera corale, volutamente frammentaria, come questa.
Stefano mi ha scritto nella dedica al libro, «Ad Angelo, che quegli altri tempi ha fatto in tempo (gioco di parole) a sfiorarli». Sì, è vero, appartengo alla generazione degli “Sfiorati”, titolo di un altro notevole romanzo di Sandro Veronesi, che ha più o meno la mia età. Tutto quello che sono, la mia formazione e il mio sentire vengono da quegli anni ribelli, quasi a volte per coazione a ripetere. L’ultima frase del libro, che racconta la storia di Yoghi, borderline che va a festeggiare la chiusura del manicomio di Ferrara, recita: «Finisce l’incubo, inizia la festa». Dopo, nei nefasti anni ’80, si è invertito epocalmente l’ordine delle parole: finisce la festa e inizia l’incubo. Fino ad oggi, dove il massacro culturale assume forme ancora più mostruose, e il potere è macroscopicamente pornografico, nel vero senso della parola.
La chiacchierata finisce lungo corso Cefalonia, dove Stefano può finalmente accendere la sua Peterson. In piazza del Popolo, quando sbuchiamo a passo lento, da un tavolinetto della gelateria “Veneta” si alza dalla sedia in metallo un signore piuttosto eccentrico e corpulento, abbronzatissimo. È Concetto Pozzati, uno dei nostri massimi artisti viventi, bolognese come lui. Come ci vede si alza di scatto e gli urla «Tas!». Si abbracciano. È venuto qui a vedere la mostra Licini-Morandi, dice che l’ha trovata bellissima.
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