L’invisibile «resistenza quotidiana» Il movimento finito nel vicolo cieco

TORINO — La guerriglia a bassa intensità  necessita sempre di un adeguato profilo verbale. E così sul sito dei no Tav il rintocco della campana che la scorsa notte dichiarava chiuse le ostilità  è stato un comunicato che parlava di «passeggiata notturna» dal «risultato positivo».

TORINO — La guerriglia a bassa intensità  necessita sempre di un adeguato profilo verbale. E così sul sito dei no Tav il rintocco della campana che la scorsa notte dichiarava chiuse le ostilità  è stato un comunicato che parlava di «passeggiata notturna» dal «risultato positivo».
I sassi, gli involucri dei lacrimogeni e le barricate con assi di legno e ferro battuto ancora visibili ieri mattina ai bordi della Torino-Bardonecchia fanno giustizia degli eufemismi. A Chiomonte si combatte quasi ogni notte, il verbo è scelto con una certa adesione alla realtà dei fatti. La ripetitività di un evento finisce per renderlo logoro, sa di già visto e vissuto. Così la campagna d’estate dei no Tav è trascorsa sottotraccia, con il resto d’Italia più propenso a seguire i crolli delle borse mondiali che quelli delle recinzioni metalliche di un cantiere edile.
La resistenza attiva, questo è il termine usato dai militanti per certe pratiche, ha dato molto al movimento no Tav in termini di visibilità. Seppur come problema di ordine pubblico ha riportato la questione della Val di Susa all’attenzione generale, con il picco degli scontri violentissimi dello scorso 3 luglio, le forze dell’ordine rinchiuse nel cantiere a difendersi da un assalto coordinato e brutale. Il 19 luglio, sul giornale Luna Nuova, il bussolenese Francesco Richetto, uno dei volti più conosciuti della protesta, rispondeva così a un militante perplesso sulla svolta radicale.
«Se oggi il governo si trova in incredibili difficoltà è proprio perché tale resistenza non è ideologica. Se il movimento fosse ostaggio dei “pazzi irresponsabili” di cui stai parlando, ogni singola azione produrrebbe atti che avrebbero affossato il movimento da tempo; ma se fosse ostaggio di quelli come te, allo stesso modo, il Tav sarebbe già una realtà».
Oggi la cosidetta resistenza attiva sta togliendo ai no Tav quel che aveva dato loro all’inizio dell’estate. L’assedio costante alle forze dell’ordine che proteggono il cantiere di Chiomonte si è avvitato su se stesso, sta diventando controproducente per gli stessi assedianti. La logica dello scontro, bassa o alta intensità dipende dai giorni, e dai partecipanti, ha creato un vicolo cieco dal quale il movimento no Tav fatica a uscire.
Il cantiere di Chiomonte è diventato ormai una palestra dell’ardimento per ogni forma di ribellismo, un magnete che attira in valle i soggetti più disparati rendendo quasi impossibile il controllo della protesta. Molti assedi estivi alla Tav erano tutto fuorché concordati, semplice spontaneismo violento che nulla aveva a che fare con un movimento che vanta una struttura orizzontale e condivisa. E la coazione a ripetere certe pratiche resistenziali fa emergere contraddizioni e perplessità anche nei soggetti che hanno appoggiato le ragioni «tecniche» dei no Tav, chiudendo spesso un occhio o sorvolando su quel che accadeva ogni giorno a Chiomonte.
I primi a prendere atto sono stati quelli di Askatasuna, il centro sociale torinese che da un decennio è diventato parte integrante del movimento no Tav. Lo scorso 19 agosto, appena un mese dopo l’orgogliosa lettera di Richetto, hanno scritto una lettera aperta ai militanti. «Bisogna capire che la lotta della valle non è fatta dal punkabbestia che per inclinazione esistenziale alza il dito medio alla polizia; è fatta dalla gente che paga le tasse e porta i figli a scuola, che studia o che prega». Nel documento c’è anche un altro passaggio importante, dove si parla di riproduzione del conflitto «dal nord al sud dell’Italia, dalla metropoli alla provincia, nelle scuole e nelle fabbriche». Quasi una dichiarazione programmatica, confermata da Lele Rizzo, che di Askatasuna è il portavoce.
«Per noi, la scorsa notte è stata l’ultima. Non possiamo continuare a sbattere contro un cancello».
C’è un altro dettaglio, non proprio secondario, che suggerisce un rapido cambio di strategia. Gli scontri di venerdì notte sono stati la fotocopia di un’estate intera, con un’unica, importante differenza. La Polizia ha reagito. Non si è limitata al lancio di lacrimogeni e agli idranti. È uscita dal cantiere, ha inseguito i manifestanti fin dentro il viadotto Clarea, ha sparato lacrimogeni mirando dritto alla baita eletta a domicilio no Tav. Basta fare un giro alla questura di Torino per capire il livello di esasperazione. Tra fratture agli arti inferiori e superiori, zigomi spaccati dalle biglie d’acciaio, sono più di quaranta gli agenti e i carabinieri finiti all’ospedale.
«Dobbiamo aprire altri spazi — dice Rizzo — altri luoghi di confronto e far capire le ragioni della protesta. Venerdì notte si è chiuso un ciclo, adesso dobbiamo cambiare passo e metodo». Finiranno almeno le «passeggiate notturne», anche se la pressione sul cantiere di Chiomonte, ormai diventato una ossessione, rimarrà alta. I no Tav tentano di aprire una nuova fase, consapevoli dell’usura e degli effetti collaterali portati in dote dall’assedio di Chiomonte. Non è detto che ci riescano. La Val di Susa è ormai un simbolo, un richiamo. Difficile fermare quel che hai cominciato. Troppe le spinte centrifughe che portano ancora allo scontro, ancora vaghe le alternative per tenere alta l’attenzione. Senza la retromarcia, è difficile uscire da un vicolo cieco.

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