L’immanenza incompresa di Gilles Deleuze

Di Gilles Deleuze, in Italia, si conosce poco o nulla. E quel nulla che resta è, normalmente, il pasto quotidiano delle insinuazioni dei funzionari che insegnano filosofia nelle università  di Stato. Deleuze – e chi lo studia – è ancora oggi accusato di essere il cantore dell’economia finanziaria, del neoliberismo trionfante e dell’anarchia.

Di Gilles Deleuze, in Italia, si conosce poco o nulla. E quel nulla che resta è, normalmente, il pasto quotidiano delle insinuazioni dei funzionari che insegnano filosofia nelle università  di Stato. Deleuze – e chi lo studia – è ancora oggi accusato di essere il cantore dell’economia finanziaria, del neoliberismo trionfante e dell’anarchia. Sulla ossessività paranoica di queste tesi non si dovrebbero spendere troppe parole, soprattutto da quando il neoliberismo ha fallito clamorosamente e il pensiero di Deleuze, insieme a pochi altri, costituisce il vademecum teorico alternativo alla filosofia ridotta al management delle risorse umane, al «nuovo realismo», all’«ontologia dell’Essere» o alle utopie del libero mercato. In questa impresa si è cimentato anche Federico Luisetti, docente di letteratura comparata alla University della North Carolina e autore di Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità, (Mimesis, euro 14, pp. 158), il quale ha distinto tra un Deleuze «immanentista» e quindi, come dicono gli italiani, «anarchico e caotico», e un Deleuze «spiritualistico», «trascendentalista», se non addirittura «cristiano». Luisetti prova a formulare una posizione intermedia, non condanna del tutto il Deleuze «immanente» nel quale intravede comunque un interlocutore, ma sembra curiosamente schiacciare la posizione del filosofo francese sulla filosofia trascendentale, in particolare quella kantiana. Ai lettori consapevoli di questa filosofia impervia, ma ormai lungamente studiata, sorgerà più di qualche dubbio nell’apprendere che l’autore di Spinoza e il problema dell’espressione, di Differenza e Ripetizione o dell’AntiEdipo è un filosofo che ha poco da spartire con Spinoza e con Bergson. Secondo Luisetti, Deleuze rifiuta la teoria del conatus del primo (che costituisce in realtà il cuore della sua teoria del desiderio), quanto la teoria dell’effort del secondo (che rappresenta invece il cuore della sua teoria della differenza). Massima sarebbe la sua lontananza anche da Nietzsche di cui il filosofo francese ha fornito un’esemplare reintepretazione.
È vero, Deleuze reinventa la filosofia spinozista insieme a quelle di tutti i suoi maestri, come hanno fatto tutti i grandi interpreti della filosofia nel Novecento. E non lo ha fatto per affermare una prospettiva «vitalistica» o «irrazionale» come recita la vulgata, ma per affermare un pensiero dell’immanenza che resta un pensiero affermativo della vita e non una teoria sociale della «mancanza del desiderio» – che invece è il senso comune diffuso tra sociologi e giornalisti. Questioni complicate, da filologi, si dirà. Può darsi che mantenere il rigore del pensiero potrà suonare così nel paese dell’analfabetismo di ritorno. Ma l’analisi di quest’opera ci consegna una politica che sfugge allo slogan più accattivante della governance liberista: trasformare il consumatore in attore razionale capace di compiere scelte responsabili su un mercato che offre una molteplicità pressoché infinita di merci, linguaggi e desideri. Questo è il mondo di ieri. Deleuze ci proietta in quello di domani.

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