Il fratello maggiore dei precari

 «Uno scrittore fuori dal coro», biografia di Luciano Bianciardi

 «Uno scrittore fuori dal coro», biografia di Luciano Bianciardi

Il critico Giuseppe Muraca inaugura, con il saggio Luciano Bianciardi. Uno scrittore fuori dal coro la collanina Antimoderati del Centro di documentazione di Pistoia, diretta da Attilio Mangano (pp. 81, euro 10). È un ritratto insieme snello e completo dell’opera narrativa e giornalistica dell’autore della Vita agra.
Muraca, da anni impegnato nel campo intellettuale della sinistra con lo sguardo attento a quelli che egli chiama Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea (Rubettino), disegna condivisibilmente il percorso di Bianciardi attorno allo snodo della migrazione da Grosseto a Milano del 1954. Nella propria militanza grossetana, di cui sono frutto maggiore gli articoli pubblicati sulla «Gazzetta» di Livorno, giornale indipendente vicino al Pci, il giovane scrittore si sente parte di uno sviluppo democratico, civile ed economico, di cui siano protagoniste le classi subalterne e in particolare i minatori. Avversari da combattere sono allora i monopolisti della Montecatini, il passatismo criptofascista, le meschinerie bigotte e piccoloborghesi di una provincia che ancora resiste agli scossoni della modernità, descritti in quadretti freschi e pungenti. Emblema di questo clima è il mito di Grosseto Kansas City, che il sodale Cassola aveva preso in consegna da un giovane ufficiale americano di passaggio durante la guerra nella cittadina.
Dopo la strage dello scoppio della miniera di Ribolla (43 morti), paventata in anticipo dalla commissione interna, Bianciardi si butta nell’avventura editoriale della nascente Feltrinelli. L’arretratezza dell’educazione provinciale si capovolge allora in grimaldello critico per leggere il produttivismo della «capitale del nord», che gli fa vedere precocemente il vuoto di senso del boom economico neocapitalistico, come fu chiamato. Fu tra i primi a denunciare e smascherare l’altra faccia del miracolo economico, «dietro la quale si celano gli enormi costi umani pagati dai ceti sociali più deboli, dietro la quale si nascondono gli aspetti negativi e la logica degradante e alienante della società del benessere. L’edonismo di massa, l’euforia dei ceti dirigenti, il consumismo sfrenato, la massificazione, la terziarizzazione e la quartarizzazione, il conformismo, i vizi e i tic della piccola borghesia e degli intellettuali, le degenerazioni del sistema politico». Si modificano dunque i quadri valutativi e la tavola degli avversari. Il lavoro culturale (Feltrinelli, 1957), riscrittura autoironica del proprio impegno grossetano, è il manifesto di tale svolta, da cui inizia quel posizionamento «fuori dal coro», fucina delle migliori prove dell’autore valorizzata da Muraca. Non ci sono dubbi che tale stagione creativa e intellettuale sia la più feconda sul piano della produzione e della sua qualità.
Il lettore che volesse verificarlo, soprattutto l’intellettualità precaria diffusa, che tanta parte costituisce dei moderni indignados mediterranei, potrebbe agevolmente trovare vaste risonanze nella pagina bianciardiana. Tanto che da più parti, tra cui da chi scrive, è stato fatto notare come Bianciardi – «ribaltatore» dall’inglese, tafanato dai creditori, aggiogato a un telefono (allora fisso) che non si decideva mai a suonare per offrire un lavoro, oppure assillantemente squillante per una scadenza di consegne – costituisca una sorta di fratello maggiore dell’odierno precario della scuola o dell’industria della comunicazione. Affinità che non troppo nascostamente costituisce la chiave di lettura di Giuseppe Muraca.
La funzione Bianciardi nella narrativa italiana del secondo Novecento propone però un’ulteriore domanda. Detto in modo sintetico, Bianciardi è un autore che cerca e ottiene la simpatia del lettore; gli è cioè estranea quella tormentosa e difficilmente aggirabile riflessione della cultura europea affacciatasi alla fine dell’Ottocento che chiama il proprio lettore fratello ipocrita. Il fatto è tanto più notevole, dal momento che lo scrittore grossetano indica tra i suoi autori, come ricorda anche Muraca, Giovanni Verga: l’esempio più clamoroso e straziante di una voce narrante chiusa in una guerra senza esclusione di colpi con il proprio lettore.
Si ha insomma l’impressione che in Bianciardi rimanga una nostalgia di sanità, passata e attiva da qualche parte, piuttosto che la tensione a un non ancora: la Grosseto ormai mitica contro Milano; l’eroismo garibaldino contro la realpolitik cavouriana o socialcomunista. D’altra parte, le critiche cui Bianciardi dava voce non avvenivano nell’«odierna società liquida», né le ironie al burocratismo del Pci avevano di fronte gli attuali ceti mediatico-amministrativi: il suo disperato controcanto faceva comunque affidamento a una rete, a una tenuta che sosteneva anche lui. Di tale forza e tali limiti è intessuta la ricerca bianciardiana, certo vissuta con alta onestà intellettuale, ignara di opportunismi e condotta, come noto, fino al sacrificio di se stesso.

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