Chi è il black bloc?

VENEZIA 68.  Muli oggi ha una trentina di anni, vive in una casa occupata, a Berlino, ha un figlio piccolo, l’impegno politico coincide con le sue scelte esistenziali che cercano anche nelle cose più ordinarie di rifiutare il conformismo dell’ineguaglianza.

VENEZIA 68.  Muli oggi ha una trentina di anni, vive in una casa occupata, a Berlino, ha un figlio piccolo, l’impegno politico coincide con le sue scelte esistenziali che cercano anche nelle cose più ordinarie di rifiutare il conformismo dell’ineguaglianza.
Black Block, «organizzati e pericolosi», questa la definizione del capo della polizia Giovanni De Gennaro chiamato a riferire sui fatti della scuola Diaz a Genova durante il G8 nel luglio 2001. Terroristi, provocatori, le figure in nero a cui si imputarono tutte le responsabilità della violenza feroce che le forze dell’ordine misero in atto quei giorni, in piazza e la notte alla scuola sede dei mediattivisti, dove i ragazzi che dormivano prima di tornare a casa vennero picchiati, torturati, persino all’ospedale, dove li avevano ricoverati dopo l’aggressione, arrestati e trascinati anche se feriti in modo serio nella caserma di Bolzaneto dove la sevizie continua, una ferocia fisica e psicologica contro esseri umani inermi, molti dei quali non in grado di capire l’italiano. Muli, Ulrich Reichel, è uno di questi «estremisti» il cui alto grado di pericolosità ha potuto giustificare la fine dello stato di diritto in un paese democratico quale si dice essere il nostro. Black Block (Controcampo italiano, in libreria dal 15 dvd e libro per Fandango) è il film di Carlo Augusto Bachschmidt, titolo volutamente provocatorio di fronte al paradosso delle motivazioni ufficiali con cui venne giustificata l’azione di polizia alla scuola, che a distanza di dieci anni, dopo il processo e in attesa della cassazione ritorna su quei fatti. E lo fa attraverso i racconti di alcuni ragazzi che li hanno vissuti, che l’ultima notte del G8, esausti da tanta violenza in piazza, decidono di fermarsi alla Diaz prima di tornare nei loro paesi rassicurati dal fatto che la scuola era un posto «legale» e pertanto doveva essere sicuro. Invece dopo poco arriva la polizia: «Erano come dei Rambo fatti di speed – ricorda Muli – sembrava che ci odiassero». Bachschmidt, che era a Genova nei giorni del G8 e dopo sarà tra i consulenti di parte civile nel processo per le violenze alla Diaz sceglie un dispositivo semplice ma durissimo, in cui utilizza poche immagini dell’epoca – e lascia invece il compito della «ricostruzione» alla parola. Dura, implacabile, terribile. Seduti su una sedia di scuola, in una stanza spoglia, i diversi testimoni ricordano, raccontano, a volte la voce si spezza, a volte gli occhi non reggono la macchina da presa, a volte l’incredulità ritornando su quei momenti li travolge.
Muli da Berlino, Lena e Niels da Amburgo, Dan da Londra, Mina da Parigi, Chabi da Saragozza, Michael da Nizza erano tutti arrivati a Genova perché parte di un movimento e di un momento storico antagonista. Ricordano l’atmosfera di quei giorni, che diventava sempre più opprimente, il desiderio di andarsene, la stanchezza e il sollievo che tutto fosse finito. C’era chi stava dormendo e neppure si è reso conto, chi come Dan ha cercato di nascondersi e ha alzato le mani dicendo mi arrendo per trovarsi con la testa spaccata spinto lungo le scale. Chi come Chabi ha alzato lo sguardo ed è stato un istante fatale. Chi come Lena, ha avuto le costole spaccate dai calci, i polmoni perforati, e non sazi i poliziotti insultandola l’hanno trascinata per i capelli, colpita a col bastone tra le gambe, presa a calci che sembra impossibile a vederla che un corpo così minuto abbia retto a tanta bestialità. Muli ferito in ospedale, nei sotterranei, viene costretto a fare flessioni, minacciato, umiliato, nudo sotto la doccia gli mimavano armati oscenità.
L’orrore nella parola assume un impatto ancora più forte. E si sta male vedendo questo bel film, un importante documento di memoria, pensando a come la verità, e la vita delle persone, sono state e continuano a essere oltraggiate, a quanto si sia fatto perché quei fatti venissero minimizzati se non percepiti dall’opinione pubblica come la conseguenza ovvia ai gesti dei «soliti vandali». Mentre la classe politica che è ancora là, l’attuale governo, non ha mai assunto la minima responsabilità.
I ragazzi e Bachschmidt si sono conosciuti dopo, al processo, è nata un’amicizia e un legame di fiducia che erano fondamentali in un film come questo. Non c’è nessun italiano, una scelta dovuta al fatto che nella Diaz, spiega il regista, c’era un’alta percentuale di ragazzi stranieri. «Inoltre la restituzione dei fatti nel loro racconto era più incisiva forsehé nei loro paesi non si è più parlato del G8, almeno fino al processo».
Non c’è però solo Genova 2001 nel film, ed è l’altra sua importante scommessa. Le testimonianze infatti parlano anche del dopo, cosa è accaduto a chi ha vissuto un trauma tanto grande, quanto ha cambiato la vita e il modo di stare al mondo, un fuoricampo che non esiste nell’informazione ufficiale, spenti i riflettori ciò che resta ai margini non interessa a nessuno.
«La polizia non è riuscita a farmi mollare tutto» dice Muli che dopo anni di depressione, una terapia, è riuscito a riprendere in mano la sua vita e lavora con un gruppo di sostegno psicologico a chi ha subito situazioni simili alla sua. La visione della politica è cambiata, è messa in pratica in scelte più minimali, senza la dimensione più esibita della grande protesta.
Dice Bachschmidt: «Un processo può affrontare le responsabilità penali ma per quelle politiche non serve a nulla. La politica rispetto al G8 è stata sempre assente, ma è chiaro che la strategia messa in atto durante quel G8 era mirata, si verificava in un momento storico ben preciso. Non era solo questione di Genova, la repressione a quel vertice è stata organizzata per colpire un movimento globale, che stava mobilitando migliaia di persone».

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