La rivoluzione? È una storia d’amore

Intervista a ‘Ala al-Aswani

Festivaletteratura di Mantova, da oggi fino all’11 settembre. Lo scrittore egiziano parla dei «segni» che lo hanno portato a prevedere nel suo ultimo libro la «primavera araba» e la rivolta scoppiata al Cairo un anno dopo

Intervista a ‘Ala al-Aswani

Festivaletteratura di Mantova, da oggi fino all’11 settembre. Lo scrittore egiziano parla dei «segni» che lo hanno portato a prevedere nel suo ultimo libro la «primavera araba» e la rivolta scoppiata al Cairo un anno dopo

Leggendo le date in calce agli scritti di ‘Ala al-Aswani raccolti nel libro La rivoluzione egiziana che arriva in libreria oggi, per Feltrinelli, è inevitabile pensare: qui c’è un refuso, non sono pezzi usciti sui giornali egiziani nel 2010, devono essere del 2011. Perché al-Aswani manifesta una incredibile capacità profetica, fin nel dettaglio, nel prevedere che «un milione di egiziani scenderà in piazza» e arriverà la «thawra», la rivoluzione che sarebbe cominciata un anno dopo, il 25 gennaio 2011, prima nella piazza Tahrir del Cairo, poi in tutte le altre piazze del paese. Noi abbiamo seguito ‘Ala al-Aswani nel suo cammino in Italia passo passo, incontrandolo in occasione dell’uscita di ognuno dei suoi libri. Dall’esordio nel 2006 con Palazzo Yacoubian, il romanzo che in Egitto, uscito nel 2002, aveva venduto 150.000 copie (cifra monstre per un paese passato senza soluzione di continuità dall’analfabetismo alla colonizzazione televisiva), al consolidarsi, anche qui da noi, del suo successo con il secondo romanzo Chicago, e poi con la raccolta Se non fossi egiziano, i cui racconti in parte erano stati proibiti dalla censura quando in Egitto negli anni Novanta al-Aswani era solo un dentista poco più che trentenne che si cimentava con il mestiere del padre, lo scrittore Abbas al-Aswani. Non era ancora l’autore baciato dal successo e l’opinionista cofondatore del movimento Kifaya («Basta così») odiato dal regime di Hosni Mubarak (le cui tetragone prese di posizione in merito a Israele, va detto, hanno fatto più di una volta discutere anche qui da noi). Ora, dal 2006, sulla pagina e a voce, ci siamo sentite dire che la malattia dell’Egitto, dopo un trentennio di sudditanza alla cricca di Mubarak, era questo impasto: corruzione & servilismo. Stavolta l’al-Aswani che arriva a Mantova per il Festivaletteratura è un uomo che succede a pochi ha visto realizzarsi un sogno: La rivoluzione egiziana, appunto, come dice il titolo del nuovo libro (con traduzione e bella introduzione di Paola Caridi). Al-Aswani, questo libro dà l’idea che lei vedesse il futuro in una specie di palla di vetro. Da dove scaturiva la sua capacità profetica??«Sono un romanziere e un romanziere deve comunque restare in contatto con la gente e con la vita quotidiana. Da qui il sentimento, che ho sempre nutrito, che in Egitto sarebbe arrivata una rivoluzione». Era la disperazione che vedeva in giro a farglielo pensare?
«La disperazione di per se stessa non porta alla rivoluzione. Si sentiva che eravamo arrivati alla catastrofe e che non c’era più spazio per accettare compromessi. Da un certo momento in poi avvertivi che c’era gente pronta a morire in nome della dignità e della libertà».
Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino, nel suo libro sulla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia – la grande madre della primavera araba dice che quanto avviene è un moto etico, prima che politico. Concorda?
«Non credo che esistano rivoluzioni politiche. La rivoluzione è la risposta alla domanda di eliminare un sistema corrotto. È più che politica. Sennò sarebbe solo voglia di riforme. Noi abbiamo visto dai primi giorni che la domanda era profonda e generale, non era una questione solo salariale. Quello che non si sopportava più era il regime. E un regime porta con sé anche una visione morale, un’idea del mondo».
Il cambio della guardia negli Stati Uniti e il discorso alla nazione araba tenuto da Barack Obama nel giugno 2009 proprio al Cairo, all’università al-Azher, hanno avuto un peso in questa «primavera»?
«In realtà gli Stati Uniti hanno sostenuto Mubarak fino all’ultimo e per loro la rivolta è stata, al momento, uno shock. L’Occidente criticava Mubarak come si critica un bambino che si adora: critichi il bimbetto, ma resta il tuo nipotino adorato». Nell’introduzione Paola Caridi fa capire che il quadro che lei traccia dell’Egitto prima del 25 gennaio può dire molte cose anche a noi italiani. Concorda??«L’Italia che amo è un paese con grandi antiche tradizioni, la musica, la letteratura e anche la democrazia. Sinceramente sono attonito, perciò, che abbia un premier come Silvio Berlusconi. Vuol dire che nel sistema ci sono delle falle».
È giunta notizia in Egitto del caso della «nipote di Mubarak»??«I sistemi di sicurezza vegliavano sulla stampa e quindi non è uscita una parola. Io l’ho saputo da un giornalista italiano che mi ha telefonato per avere un mio parere. Certo, se Berlusconi ha speso il nome di Mubarak vuol dire che sapeva che l’avrebbe coperto. Non mi meraviglia che siano amici».
Eccovi alla vigilia delle elezioni. Pensa ci sia da temere da un accordo tra potere militare e Fratelli Musulmani? «Sono arrabbiato per come il Comitato Militare sta interpretando il suo ruolo di presidenza durante la transizione. Mi sembra che propendano al più verso il riformismo, mentre il loro compito sarebbe di vegliare sulla rivoluzione. Le riforme aggiustano un sistema, non lo eliminano. Però sono fiero, sono ottimista, sono contento di quello che è avvenuto. Abbiamo superato la paura e quando lo fai niente, poi, può più essere come prima. Abbiamo bisogno di regole certe, che partiti e candidati siano costretti a dire chiaramente come la pensano sul rapporto tra religione e Stato, bisogna che le moschee smettano di essere centri di propaganda e tornino a essere solo luoghi di preghiera. Ma gli egiziani non accetteranno false elezioni». Lei racconta che il 25 gennaio, visto in televisione quanto stava succedendo, ha mollato il romanzo che stava scrivendo e si è installato in piazza Tahrir. E parla di quei giorni come di un approdo in paradiso, un mondo dove regnavano civiltà, tolleranza, gioia. È così?
«La rivoluzione è come una storia d’amore. Quando vivi una bella storia d’amore diventi una persona migliore».
Ora ha ripreso in mano il romanzo?
«Sì, racconta la storia delle prime macchine arrivate in Egitto e, negli anni Quaranta, la vita dentro l’Automobil Club delle due categorie, i servi e i ricchi soci, europei o egiziani. Ho passato sei mesi per strada, la rivoluzione mi dato nuovo slancio, uscirà in gennaio».

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