Pescatori sì, ma ribelli

COMPETIZIONE «Terraferma» di Emanuele Crialese
Primo italiano in gara, il film affronta il tema degli sbarchi e riporta in vita la democratica legge del mare. Dimenticata e deviata

COMPETIZIONE «Terraferma» di Emanuele Crialese
Primo italiano in gara, il film affronta il tema degli sbarchi e riporta in vita la democratica legge del mare. Dimenticata e deviata

 VENEZIA.I pescatori italiani conoscono la «legge del mare» e molto altro ancora. Sanno bene che ci sono «cose che non si possono fare», dentro il Mediterraneo e fuori. Sono stati infatti costretti a studiare ogni cavillo del diritto internazionale e dei codici penali tunisini, libici e marocchini visto che per pescare qualcosa penetrano da decenni clandestinamente, e senza virgolette, in acque territoriali altrui, dopo che le grandi compagnie di pesca hanno fatto scempio ormai dei nostri fondali. Dunque quando un pescatore siciliano (di sangue anche fenicio, berbero, arabo…) vede un uomo o un gruppo di uomini in mare, nel pieno rispetto di tutte le nostre leggi, del mare e di terra, lo/li mette in salvo, se ci riesce. Se no commette reato di omissione di soccorso. Neanche Bossi e Fini hanno (finora) imposto una legge che criminalizza un uomo solo per il colore della sua pelle o del suo passaporto bagnato. Un cittadino nero, giallo, rosso in mare è come un cittadino bianco. Anzi, probabilmente, la sua richiesta di asilo politico, sarà molto più motivata…

Dunque ha fatto bene Emanuele Crialese in Terraferma, primo film italiano in concorso, a raccontarci una rivolta di piazza, quella dei più esperti e consapevoli pescatori di un’isola siciliana, con tanto di lancio di pesce marcio contro le autorità, dopo la requisizione di un peschereccio «buonista», giudicato un atto di intollerabile arroganza poliziesca, con carabinieri e guardia costiera spinti a dare interpretazioni più fasciste ancora delle leggi vigenti contro l’immigrazione «clandestina» (su sollecitazione di chi ha interessi forti nel business dei centri d’accoglienza, e chissà chi è). Per criminalizzare un cittadino come «clandestino» bisogna prima analizzare la sua richiesta di soggiorno. Ma ha fatto male, Crialese, a non farcene vedere neppure un’immagine della lotta. Come mai? La rivolta popolare, lo scontro di piazza è ormai un oggetto tabù, è antiquariato dell’immaginario? Eppure tutti questi black block vecchietti avrebbero spinto il buon senso collettivo almeno a decidere di abbassare, e non di alzare, l’età pensionabile…
Ha fatto bene Emanuele Crialese, cineasta, a spezzare una lancia contro questi orrori morali e illegali e a puntare tutto il film sulla presa di coscienza e sui conflitti etici di Filippo (l’attore Filippo Pucillo, che è un po’ per lui quel che Ninetto Davoli era per Pasolini e Harpo Marx per i suoi fratelli), giovane e ingenuo pescatore orfano di padre, che si sbatte per un futuro part-time da operatore turistico senza licenza, sopportando pure amici scellerati, donne pavide e un trio di orridi coetanei del nord in subaffitto, e a includere nella fiaba, ma a forti contenuti polemici, satirici e realistici, la sua ribellione contro un mondo «arcaico» che la crisi sta cancellando ma che si sta arrendendo alla prepotenza dei più forti, allo sfruttamento schiavistico dei più deboli (qui rappresentati da una mamma etiope, anche violentata dalle guardie di Gheddafi), alle speculazioni, al profitto e a un modello di piacere e divertimento piuttosto miserabile. Che poi è «il mondo» che, nel film, lo zio di Filippo adora ed emula, senza grande lungimiranza imprenditoriale, da robot ipnotizzato da Canale5… Ma ha fatto molto male Crialese a cancellare dal suo film le immagini di quel che i fondali d’Italia stanno conservando per la memoria delle generazioni future e la vergogna di quelle viventi. Montagne di cadaveri. Quando Filippo, preso dai sensi di colpa per aver fatto morire dei profughi in acqua, si tuffa per vedere quel che ha combinato, non riuscirà a vedere neanche un corpo, dei tanti prodotti dalle nostre efficienti leggi. Solo carte di identità, scarpe, oggetti perduti, passaporti e una sola mano, una parte per il tutto. Certo le correnti del mare sono indecifrabili. Ma un po’ di licenza poetica è lecita. Non possiamo aspettarci queste immagini sono nei poemi visuali possenti di Isaac Julien. Chissà come saranno rimasti male, poi, i sindaci di Treviso o gli onorovoli Alfredo Mantovano, poverini, dopo tanta fatica legislavtiva. Tanto lavoro per nulla. Ma forse è un altro tabù che Crialese non vuole o non può infrangere. Produce (anche) la Rai. Come nei tg Usa vedere le bare dei soldati è proibito.
Molti, troppo per il Lido, i film del week end. Di Demme su Katrina parleremo. Di Pugni chiusi abbiamo già scritto su Alias. Al Pacino elettrizzato da Oscar Wilde in Wilde Salome (fuori competizione) usa un allestimento teatrale in forma di oratorio, un pellegrinaggio nei luoghi dove visse, morì e fu incarcerato il grande scrittore irlandese, un film in esterni, un making off della piece teatrale (non proprio riuscita, tranne per la sua performance, almeno per chi ricorda Erodiade o il Giovanni Battista di Beardsley e di Carmelo Bene) e una serie di interviste, tra l’altro a Gore Vidal e a Stoppard, per raccontarci quale fu la vera colpa del delizioso autore di L’importanza di chiamarsi Ernesto. Più della sua esplicita omosessualità, che scandalizzò a morte i puritani vittoriani, fu la sua esplicita adesione alle idee comuniste e socialiste che ne decretarono l’odio imperituro dei borghesi. Uno di questi «borghesi inglesi» che ha passato la vita a proteggersi dai germi infetti di un altro comunismo, quello «dittatoriale sovietico» è John Le Carré responsabile del romanzo che è diventato, tra le mani di Tomas Alfredson il più estenuante, ripetitivo, complicato, opaco nei colori e indigesto dei film in gara finora, Tinker, taylor, soldier, spy. 1973. La cupola dei servizi segreti di sua maestà ha una pericolosa talpa. Tra i 5 super capi c’è un uomo di Mosca. A George Smiley (Gary Oldman), fatto fuori dopo una operazione finita malissimo a Budapest, il compito di scovarlo. E sarà molto difficile perché tra doppi e tripli giochi, la forte ingerenza della Cia che sta organizzando la mossa Allende ed è ai pazzi per il Vietnam, c’è da perdersi. Se poi la talpa non è solo una, ma addirittura, due, tre, quattro… Un tempo si diceva che il film è ‘un mattone’. Però è abbastanza consolante venire a sapere che forse dobbiamo un grazie anche a questi quattro ‘traditori’ se Giap e Ho Chi Minh ce l’hanno fatta. Inoltre i cultori di spy stories avranno apprezzato lo stile (in lingua originale) recitativo, tutto a togliere, introverso, quasi invisibile, di John Hurt, Gary Oldman e Colin Firth. La battuta peggiore del film è l’anacronistico commento di Smiley al rifiuto di un generale Urss di passare con il nemico pur sapendo che, rientrando in patria, sarà vittima di una ‘purga’ (nel 1973?): “Vinceremo noi. Ho scoperto che sono fanatici. E nel fondo di ogni fanatico c’è il dubbio segreto”. Ma si riferiva a Lenin o a Osama Bin Laden?

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