Narges, Abbas e gli altri, vite condannate all’esilio

 VENEZIA. GIORNATE DEGLI AUTORI «Out of Tehran»
Economisti, blogger, operatori di tv. Un incontro con i protagonisti del documentario

 VENEZIA. GIORNATE DEGLI AUTORI «Out of Tehran»
Economisti, blogger, operatori di tv. Un incontro con i protagonisti del documentario

 Abbas Khorsandi, cinquantenne, era un professore di economia. Hossein Tabatebei è invece un quarantenne, era operatore presso la tv di stato. Ebrahim Mehtari non ha ancora trenta anni, era un blogger. Narges Kalhor è una giovane che avendo a cuore i diritti umani non ha più potuto rientrare nel suo paese. L’Iran. Sono loro i protagonisti delle quattro storie che compongono il documentario Out of Tehran di Monica Maggioni, giornalista Rai. Quattro vite condannate all’esilio, senza avere commesso alcun reato. Se non quello di non sopportare più il regime di Ahmadinejad. Assistiamo alla fuga notturna di Abbas verso il Kurdistan iracheno, Ebrahim (incarcerato e violentato dalla polizia iraniana) sta a Parigi: «Qui le persone non sono cattive, ma io non appartengo a questo mondo» dice, e ora, dopo che agenti iraniani hanno cercato di ucciderlo anche in Francia, non cambia idea e sogna sempre di tornare nel suo paese.

Lo incontriamo a Venezia, ha una sciarpa verde simbolo dell’opposizione al regime e al polso un nastrino, sempre verde, con il simbolo dei pacifisti. «La nostra è un’opposizione pacifica. La generazione dei nostri padri ha fatto una rivoluzione che è finita in questo modo, noi non vogliamo rifare lo stesso errore, vogliamo solo una vita normale». E sui padri ha qualcosa da dire Narges, anche lei a Venezia, suo babbo Mehdi è uno dei più stretti consiglieri di Ahmadinejad. «Per anni tra noi c’è stato conflitto, sulle regole che io non volevo rispettare. La mia ribellione consisteva per esempio nel rientrare oltre l’orario consentito». Sin qui nulla di serio, succede ovunque nel rapporto genitori-figli: «Molti protestano in famiglia contro il fanatismo di quelli come mio padre, ma poi è difficile esplicitare questa ribellione all’esterno». Ebrahim aggiunge: «E pensare che i nostri padri erano idealisti, noi invece vogliamo vivere. In ogni famiglia esistono le due generazioni, i figli dei rivoluzionari sono contro quel che han fatto i genitori perché ci hanno negato il futuro». Anche per questo il modo di opporsi al regime è molto cambiato: un paio d’anni fa, quando tutti si aspettavano la vittoria dell’opposizione, invece finì in un bagno di sangue. Lo stesso regime dichiara la cifra ufficiale di 168 morti durante le manifestazioni di protesta. Ora si combatte in modo diverso, con le pistole a acqua che fanno impazzire il regime, mentre molti blogger telefonano ai potenti per prenderli in giro e soprattutto si usa la Rete, addirittura alla fine del Ramadan, quando è tradizione versare un contributo religioso, qualcuno ha invitato a dare il proprio obolo al movimento verde. Ma, dietro questi aspetti al limite del situazionismo, ci sono i drammi e le tragedie degli oppositori. Abbas, fuggito tra un arresto a l’altro perché cercava di organizzare politicamente l’opposizione, è ancora lì, in un territorio che pullula di agenti e spie di Tehran perché non gli è ancora stato riconosciuto lo status di rifugiato. Hossein è stato raggiunto dalla famiglia, altro cruccio per gli esiliati che talvolta non hanno più notizie da casa e l’angoscia devasta.
Ma ci sono parole dolci per Panahi, che per il solo fatto di essere stato sospettato di voler raccontare l’opposizione è stato condannato a sei anni di galera (non si trova in carcere ma a casa, perché temono la sua popolarità, al momento è più efficace la condanna al silenzio, per venti anni). Narges si occupa di tutti i delitti del regime verso l’opposizione e l’immagine del dossier che racconta la vicenda di Panahi è quello che chiude il documentario.

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