Nelle “Lettere dal carcere” – capolavoro dell’epistolografia carceraria dell’antifascismo, e più in generale della letteratura italiana – Antonio Gramsci si rivela scrittore dalla “prosa comune, scialba, talora sciatta”, interessato a “descrivere, con stucchevole minuzia e continue ripetizioni, la propria vita giornaliera”.
Nelle “Lettere dal carcere” – capolavoro dell’epistolografia carceraria dell’antifascismo, e più in generale della letteratura italiana – Antonio Gramsci si rivela scrittore dalla “prosa comune, scialba, talora sciatta”, interessato a “descrivere, con stucchevole minuzia e continue ripetizioni, la propria vita giornaliera”. Questo giudizio incredibile è di Giovanni Papini, affidato, forse per involontario pudore, alle pagine del suo diario, nel 1947; e lo riesuma ora in un libro affascinante (e per tanti aspetti discutibile), Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale (Einaudi), Raffaele Liucci, una rara figura di studioso autentico estraneo all’Accademia. Ma torniamo a Papini: l’ex enfant terrible, fattosi da teppista uomo d’ordine, da mangiapreti papista, era a lungo rimasto alfiere – nazionalista prima, fascista poi –, del peggior bellicismo.
ORMAI la guerra, quella che aveva affossato, con il Paese, il regime mussoliniano, era finita, ma le sue ferite persistevano: nelle istituzioni, nella società, e nel foro interiore di tanti uomini di cultura, perlopiù schierati, per opportunismo, per convinzione, per necessità, con il Duce. Ma non pochi, dal ‘40 al ‘45, si erano accomodati in poltrona, a godersi lo spettacolo di quella guerra, fra tormenti, dubbi, o semplicemente aspettando che passasse anche quella “nuttata”. A costoro, Liucci dedica la sua attenzione, rileggendo, in modo originale, non sempre condivisibile, ma stimolante, testi noti – perlopiù di natura personale, privata, come corrispondenze, diari, o pubblica, come la memorialistica –, o scovando testi perduti nel fondo del sistema bibliotecario nazionale. Tra gli “spettatori” passivi, anche se interiormente spesso tutt’altro che inerti, troviamo alcuni dei nomi del gotha dell’antifascismo repubblicano , letterati, studiosi, pubblicisti che nel dopoguerra diverranno maestri di pensiero e azione per la giovane democrazia italiana. Cominciando da Piero Calamandrei, che assiste impotente, avvilito, ripiegato in una silente amarezza, agli sconvolgimenti della guerra, “ma sempre scansando”, nota Liucci, i vittoriniani “eroici furori”. E si dedica al suo gigantesco diario, che registra, nello sconsolato passivismo dell’intellettuale, non senza incertezze di giudizio, la speranza in un’altra Italia, in un mondo liberato dalla tirannide nazifascista; e, in tal senso, arriva addirittura a prendersela con Machiavelli, liquidando Il Principe come “spregevole manuale di delinquenza politica”. E qui l’autore sembra concordare, tanto da precisare che, in quello stesso tempo, il detenuto Gramsci (ancora lui!) “curiosamente … scriveva pagine colme d’ammirazione” proprio per Il Principe , e il suo carattere “utopistico”, ma in grado di “spingere all’azione”. Esempio, mi pare, di un doppio errore di giudizio, da parte di Calamandrei allora, di Liucci oggi.
Calamandrei, come Pavese, come Capitini, e tanti altri, pure di sentimenti antifascisti non si unirono alla Resistenza, in alcun modo, nel ‘43-‘45: la “tentazione della casa in collina”, per richiamare il titolo di un precedente libro (rifiutato) dell’autore, prevalse. In taluno, come Pavese, addirittura troviamo giudizi di esaltazione del nazismo (le famigerate pagine del diario edite nel 1980); in altri testi, perlopiù diaristici ed epistolari – l’elenco è lungo –, si coglie malumore, diffidenza, fastidio per i partigiani, o persino condanna; quasi un’anticipazione di certe polemiche dei tempi nostri, quando si è arrivati a equiparare, storicamente, se non ancora giuridicamente, gli uni e gli altri, ingigantendo (De Felice docet), la “zona grigia”: ecco, è quella supposta “maggioranza silenziosa” degli italiani che stavano alla finestra la protagonista dell’indagine di Liucci, coloro che cercarono rifugio nella professione, o, specificamente , per gli uomini di lettere e arti, nella creazione, nella meditazione solipsistica.
Tutt’intorno il mondo andava in pezzi. Se nella massa di coloro che non parteciparono prevaleva l’istanza della sopravvivenza (e il loro desiderio che la guerra cessasse era oggettivamente antifascista), tra i “chierici” prevaleva il cinismo stanco di chi comunque sa che se la caverà, comunque vadano le cose. Poi, rimase in tanti la disillusione di una nuova Italia simile alla vecchia, pur cambiando le apparenze; mentre in altri prevalse uno scetticismo impolitico che finiva per equiparare tutti e svalorizzare scelte e ideali; e la Repubblica antifascista parve a taluno di loro non migliore del regime mussoliniano.
I GIUDIZI facili si sprecarono, e talora in questo libro trovano buona accoglienza. Ma dietro il disincanto, nel retrobottega dell’intellettuale che rifiuta la milizia, e che pensa che sia comunque meglio salvare la propria (supposta) genialità, oltre che la pelle, invece della dignità del ruolo, affiora un egocentrismo insopportabile. Avranno scritto anche belle pagine, i Flaiano e i Brancati, i Buzzati e i Berto, ma non possiamo prenderli a esempio, magari irridendo la figura dell’intellettuale militante; essi, e tanti loro sodali, non prestarono soverchio peso alle “buone cause” (quelle per cui vale la pena di combattere e forse morire, per citare il finale di Ricorda con rabbia di Osborne), troppo intenti a coltivare il proprio “particulare” scavando una nicchia (come scrisse, in un empito di implicita autocritica, Cesare Pavese), e accucciandovisi dentro aspettando che la tempesta passasse . La tempesta, però, è la storia stessa; e l’intellettuale, di ieri, come di oggi – quando la guerra è divenuta la colonna sonora della nostra quotidianità –, ha il dovere di navigare quel mare, fornendo aiuto a chi ne ha bisogno, compiendo scelte, additando la meta; facendo insomma del “principio di responsabilità” la propria bussola.
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