La politica qualunquista

Venezia 68 Apre la mostra il film del divo hollywoodiano, ma a colpire fuori concorso sono le storie spiazzanti e sorprendenti di Kossakovsky

Ne «Le idi di marzo», scritto diretto e interpretato da lui stesso, George Clooney veste i panni di un governatore candidato alle presidenziali, pronto a ogni compromesso. Racconto dalle buone intenzioni ma non del tutto riuscito

Venezia 68 Apre la mostra il film del divo hollywoodiano, ma a colpire fuori concorso sono le storie spiazzanti e sorprendenti di Kossakovsky

Ne «Le idi di marzo», scritto diretto e interpretato da lui stesso, George Clooney veste i panni di un governatore candidato alle presidenziali, pronto a ogni compromesso. Racconto dalle buone intenzioni ma non del tutto riuscito

 VENEZIA.Apre il concorso di Venezia 68 questo Le idi di marzo scritto, diretto e interpretato da George Clooney, che si ambienta nelle fasi finali di una futura immaginaria campagna per le primarie del partito democratico, e per lanciare alle presidenziali il governatore Mike Morris (Clooney). Che è un politico dell’apparato, pronto a qualunque compromesso, se costretto, ma che si presenta come «uomo nuovo», pacifista, deciso ad aumentare le tasse e le spese sociali, addirittura ateo («la mia sola religione è la Costituzione degli Stati uniti d’America!) e più idealista di altri (e qui sembra alludere a Obama). Contro di lui il solito «moderato di centro» che vincerà in Ohio perché lì le elezioni sono «aperte» e riceverà un previsto plebiscito dai repubblicani, scandalizzati dal programma «socialista» di Morris.

Morris, che socialista non è, ha coinvolto nella costruzione del suo «logo», un giovane asso della comunicazione, Stephen Meyers (Ryan Gosling), secondo al solo Paul Zara (Philip Seymour Hoffman) nello staff e che ha l’eleganza di dire alla stampa sempre la cosa giusta al momento giusto, e come se fosse la cosa più naturale del mondo. Il suo rivale Tom Duffy (Paul Giamatti), invidiosissimo, cerca di strapparlo a Morris a tutti i costi. I sondaggi gli danno ragione e anche la corte (pare riuscita) a un boss del partito che sta diventando l’ago della bilancia. Vado con chi mi offre di più, fa capire (ed è pure nero, oltre che falco). Una giornalista del NYTimes (Marisa Tomei) cerca intanto di fare scoop. Una bionda stagista (Molly, è Evan Rachel Wood) ventenne intraprendente, rampolla di un boss del partito, è nel gruppo e andrà a letto una sera, capita, con il governatore e, con maggiore trasporto, con Stephen. Una boccaccesca avventura che servirà da «mcguffin», da espediente, per tutto l’intrigo a venire. Lei, usata e abusata un po’ troppo da tutti, finirà martire come se al soggetto avesse collaborato Lars Von Trier. Ma Stephen stesso è tentato dal potere. Vacilla. Altro che idealista. Per non perdere il posto perde ogni decenza umana e abbandona Molly in difficoltà… Anche Morris vacilla e addirittura offrirà la vice presidenza a quel falco…La politica continua, il trio, dopo una serie di duelli e di reciproci regolamenti di conti crudeli come in Eva contro Eva, insomma tra farabutti geniali, diventerà un binomio, pronto per le Presidenziali. Pronto a rimangiarsi ogni promessa. Pronto ad arrendersi alla economia globale, etc…
Molte riprese del thriller in realtà sono state effettuate, per ragioni umanitarie, non in Ohio ma nella disastrata Detroit, Michigan, la città diventata ormai quasi fantasma, nonostante Marchionne e la General Motors. Tra i produttori ci sono cineasti impegnati come il co-sceneggiatore del film, Grant Heslov (da sempre braccio destro di Clooney) e Leo Di Caprio.
Tratto liberamente dal lavoro teatrale di Beau Willimon Farragut North (che allude al quartiere dove le teste d’uovo delle campagne elettorali sono destinati a finire, mestamente, a parte il conto in banca, la loro carriera lavorativa, se sbagliano una sola mossa) Idi di marzo si distingue da un qualunque film sui «portaborse», più che sui politici (Luchetti in fondo ne è stato un precursore) per le luci manieristicamente dark di Phedon Papamichael e la musica, più incalzante e roboante del solito. Il thriller è dedicato a quel gioco che, fin dai tempi di Giulio Cesare, è il più appassionante di tutti, la politica: inganno, cinismo, corruzione, bugie, tradimenti, complotti, pragmatismo, certo, ma in cambio la possibilità di controllare il mondo. E di maneggiare il sesso a piacere. Però. Tutto il mondo ricorda l’ «incubo dell’Ohio». Lo stato nordamericano che fermò (anche grazie ai trucchi criminali della destra) le speranze elettorali del mai-presidente Kerry e su cui l’attuale presidente Obama fondò invece la sua vittoria.. Un posto che dunque sia i repubblicani che i democratici, per un motivo o per l’altro, adorano. Proprio come succederà presumibilmente, a giudicare dall’accoglienza unanime qui al Lido a questo thriller bipartisan di Clooney che proprio in Ohio si ambienta.
Ma che è, come si diceva in tempi più rissosi, un film «qualunquista», aggettivo oggi riabilitato e trasformato nella sostanza stessa del sentimento più vezzeggiato e alla moda, «l’antipolitica». Ed è anche, vista l’esposizione intensa e recente del cineasta alle radiazioni più malefiche del nostro paese, quasi una commedia «all’italiana», perché si parla anche un po’ confusamente, di sesso e di corpo che interferiscono diabolicamente con gli ideali e lo spirito della politica. E se il sesso è fatto dagli uomini (sposati e senza fede) è un accidente virile, ovvio e «scusabile». Ma se l’iniziativa è delle donne – single, maggiorenni e credenti – è tutt’altra cosa. Bisogna, come minimo, essere ubriache fradice per accostarvisi e poi: sensi di colpa, drammi, aborti, scandali, barbiturici… Neanche fossimo tra frequentatori di tea party…
Perché se ci si applica, giustamente, in questo film dalle buone intenzioni, a sondare e smantellare i meccanismi del potere, e ridurre un po’ tutta la storia Usa (dagli omicidi Kennedy agli imbrogli di Nixon, al caso Clinton/Levinsky) ai suoi moventi più «bassi», oscuri, patologici e casuali, come fossero le questioni cruciali, e forse è così, ci si allontana dalla sensibilità «liberal» (sbandierata da Clooney, che poi dà l’intervista esclusiva a Oggi…) se non proprio da quella radical, che ha reso indimenticabile il filone «elettorale» new Hollywood anni 60 e 70, pensiamo a Il candidato o a Pollack, Lumet, Pakula. Se questo film, parola di Clooney, «all’inizio piace alla sinistra ma alla fine alla destra», chiama al combattimento subito ma via via si incupisce nella resa inevitabile al Moloch – «nulla si può trasformare in questo paese perché i poteri forti sono inossidabili» – rimpiangiamo quelli di Michael Ritchie e Robert Redford, di Altman e di Frankenheimer come pezzi autentici di «anti politica», perché odiati sia dalla destra conservatrice che dalla sinistra «riformista». Chi si fida, in nord America, dei programmi elettorali, anche di cristallina etica rooseveltiana, ha cancellato dalla sua memoria la Convenzione di Chicago del 1968 che candidò un politico guerrafondaio che aveva raccolto meno voti nelle primarie democratiche, mentre si picchiavano a morte gli oppositori, proprio come si fa in Siria oggi. Altro che stagisti ministri o cadaveri. Se l’America non vuole essere seconda alla Cina, ci dice il film, che alla politica non si dedichino mai anime belle e idealisti. Perché dietro ognuno di loro si nasconde un ipocrita, pronto a passare sul carro del più forte. È falso. Dipende dai politici. Ma sentito nominare Sankara? E perfino un cineasta «non liberal» come Eastwood sul rapporto politica/sesso in True crime è andato più a fondo, a proposito di tragedie shakespeariane.

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