A Berlino in mostra i travestimenti della Stasi
A Berlino in mostra i travestimenti della Stasi
BERLINO — Cappello, pelliccia e sciarpone. Perché, non veste così un russo? E il giornalista occidentale? Tripla macchina fotografica a tracolla, cappelletto da pescatore, scarpe da tennis. E il turista tedesco? Sandali e jeans strappati al ginocchio (se è dell’Est), giacchetta corta di manica e cravatta (dell’Ovest). Gettate nel mix qualche barba e baffi finti, e gli immancabili occhiali da sole dorati (quelli, sempre stile Ddr anni 70), ed ecco la perfetta spia della Stasi. Vestita per entrare in missione, sul serio.
No, non sono uno scherzo le fotografie che l’artista Simon Menner ha ritrovato negli archivi della Stasi, i servizi segreti della Ddr, e attorno alle quali ha organizzato una mostra (Images from the secret Stasi Archives) a Berlino, alla Morgen Gallery. Doveva essere una piccola esposizione, in una strada piena di gallerie a Est: invece, questo defilé Stasi Chic, è finito sui giornali, facendo il giro planetario della blogosfera, ha attratto migliaia di visite (un libro si stamperà a mostra finita, a settembre) fino a portare l’artista davanti alla telecamere della Bbc.
Perché quelle sono fotografie realmente scattate a un corso di camuffamento della Stasi, immagini usate poi come materiale didattico nei corsi su «come travestirsi». E se, guardandole oggi, uno pensa a un film trash sugli 007 stile Austin Powers della Ddr, e sorride per come con tutti questi sforzi gli agenti riescono, sorprendentemente, a sembrare… delle spie, c’è un aspetto più inquietante che non si riesce a rimuovere. «Queste foto sembrano assurde, adesso — ha detto Simon Menner in un’intervista alla Bloomberg —. Però, erano usate per insegnare a confondersi nella società. Questo è materiale diabolico».
Viste così, queste foto sono già la condanna della Stasi, vent’anni prima che il Muro crollasse. Si vede, negli scatti, tutta l’ignoranza dell’altra parte, la distanza dalla vita della gente, il trionfo del kitsch e degli schemi ideologici sordi al senso comune, che se hanno distorto così l’arte semplice del vestire, quanto devono aver stravolto i ritmi e la vita in una società totalitaria.
Simon Menner, così si racconta l’artista nelle interviste, è intrigato dal concetto di sorveglianza. Ma, per quanto lo spionaggio esista da migliaia d’anni, dice, non c’è quasi documentazione sulla sorveglianza dal punto di vista delle spie. E che cosa vede il Grande Fratello orwelliano, quando ci tiene sotto osservazione? Così ha passato un po’ di tempo a ricercare gli archivi della Stasi, «perché noi tedeschi abbiamo questo tesoro senza pari a disposizione, chissà cosa c’è negli archivi segreti della Cia e dell’Fbi». E allora, ha trovato una serie d’immagini che, esposte nelle tre stanze della galleria berlinese, fanno molto meno ridere. Polaroid di letti sfatti, macchinette di caffè Siemens, ripiani di cucina. Scattate dagli agenti durante le intrusioni nelle case quando gli inquilini uscivano, come nel film Le Vite degli altri: servivano a registrare l’ordine degli oggetti per rimettere poi, finita la perquisizione, tutto a posto senza lasciar tracce. E la macchinetta Siemens, prodotta all’Ovest? Quella poteva benissimo essere la prova di «contatti con il nemico»: una polaroid per spedirti in prigione.
Anche se le immagini più surreali, forse, sono altre ancora: le spie Stasi che fotografano quelle occidentali, quando queste entravano infiltrate nelle delegazioni militari e/o ufficiali a Berlino Est. Un gioco quasi scoperto: in una c’è una spia (americana) che sorride e si mette in posa. La reciproca consapevolezza, l’essenza della guerra fredda. «In fondo — dice Menner — l’Est e l’Ovest si muovevano all’interno di uno stesso schema mentale». Non si penserà mica, dice, che il gioco (anche assurdo e violento) delle spie si esaurisca con la Stasi nella Ddr?
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