Il rimosso della storia

Locarno «Inconscio italiano» di Luca Guadagnino è il documentario che racconta il colonialismo in Africa, riposizionando l’immaginario collettivo fra torture e devastazioni
L’invasione fascista in Etiopia viene narrata attraverso una polifonia di interventi. Come un’onda, alla fine del film, scorrono i materiali d’archivio di un massacro assai feroce e reinventato nel «buonismo»

Locarno «Inconscio italiano» di Luca Guadagnino è il documentario che racconta il colonialismo in Africa, riposizionando l’immaginario collettivo fra torture e devastazioni
L’invasione fascista in Etiopia viene narrata attraverso una polifonia di interventi. Come un’onda, alla fine del film, scorrono i materiali d’archivio di un massacro assai feroce e reinventato nel «buonismo»

 LOCARNO.Il meteo non si accorda al festival, almeno in questi primi giorni. Non è una banalità, pioggia o sole stabiliscono, infatti, l’esito della Piazza, la scommessa spettacolare (e di pubblico) più importante. Terzo giorno, Leslie Caron ha regalato il suo ricordo di Vincent Minnelli: «L’ho incontrato per la prima volta nel ’51, sul set di Un Americano a Parigi. Mi chiamava ‘Angelo’. L’ho conosciuto bene solo sette anni più tardi, quando abbiamo fatto Gigi. Riusciva a capire le donne come nessun altro uomo, c’era un lato femminile nella sua personalità. Lavorare con lui era come un incontro continuo tra immaginazione e gusto…», ha detto al quotidiano del festival Pardo live. E ieri notte anche se per pochi intimi (peccato), è stato fantastico sentirsi un po’ The Dreamers tra i colori spericolati di The Pirate (1948), musical e commedia di amori proibiti, leggende caraibiche e «coup de théâtre». Be a Clown, Be a Clown si continua a cantare andando a letto ipnotizzati dalla magnifica coppia di nemici-innamorati Judy Garland e Gene Kelly.

Brava gente?
La storia «viva» è invece la materia su cui lavora Luca Guadagnino in Inconscio italiano, fuori concorso, il racconto dell’invasione fascista in Etiopia, un massacro feroce senza dichiarazione di guerra (costò all’Italia l’embargo della Società delle nazioni) e gesto di un colonialismo tardivo, senza un progetto coloniale, privo cioè di un’economia e di una società industriale e a sviluppo avanzato. Guadagnino ci mostra le immagini d’archivio (dell’Istituto Luce) del nostro rimosso, non l’unico nella storia italiana, ma un pezzo consistente: la crudeltà, i morti (trecentomila), le torture, una guerra fatta per devastare e uccidere con i grandi numeri, pure attraverso l’uso delle illecite armi chimiche. E non importa se poi sono stati costruiti «ponti e strade», il refrain del «colonialismo buono» italiano, così come l’immaginario collettivo nostrano lo ha sempre mostrato. La questione è un’altra, e riguarda il nostro essere passato e presente.
Da questo, Guadagnino con la complicità nella scrittura di Giuppy D’Aura (autore della sceneggiatura) e dello sguardo netto di Ferdinando Cito Filomarino (montaggio) costruisce la sua indagine, con una scelta di regia che «divide» gli archivi dagli interventi di filosofi, storici, antropologi interrogati da Giuppy D’Aura che è un po’ anche la nostra «guida», sulla questione coloniale più in genere, e sullo specifico italiano. Ascoltiamo Angelo Del Boca, il solo storico italiano che ha smascherato la menzogna del colonialismo, Lucia Ceci, Ian Chambers, Michela Fusaschi, Ida Dominijanni, Alberto Burgio, e ci si rende conto, per esempio, attraverso le parole di Chambers, inglese (perciò ancorato a una tradizione coloniale), di come questa sia invece assolutamente assente dall’esperienza italiana.
L’Italia è un paese arretrato, Mussolini predica e pratica l’autarchismo, l’«altro» e l’altrove sono concetti esotici, sogni proibiti di palme e piaceri misteriosi che coltiva qualche temerario. Faccetta nera è invece la schiava, la «bella abissina» domata e resa «romana». L’Italia non sarà capace di mescolare alla sua realtà, sapori, suoni, parole, come accaduto nelle altre esperienze coloniali, una permeazione inesorabile anche quando l’altro diventerà il nemico, rivendicando un’indipendenza che lo sottrae al controllo del colonizzatore.
Gli archivi arrivano alla fine, un’onda potente che squarcia i tabù rivelandone la violenza e il peso nella formazione della nostra indentità. Prima sono solo una punteggiatura tra i diversi interventi, poi le immagini tirano i fili della storia e assumono, alla luce di quello che è stato raccontato, un significato profondo e rivelatorio. Perché nel film non rappresentano solo la memoria, o diventano, come oggi spesso accade, elementi decorativi: nella loro terribile evidenza Guadagnino cerca l’attualità. Così alla luce delle parole dei diversi testimoni, le immagini anche quando apparentemente pacificate, come le riprese del matrimonio della figlia di Rodolfo Graziani, vicerè d’Etiopia, rivelano un’uguale atrocità che è differenza di classe, di sesso, razzismo. Ma la trama di quell’invasione impone anche di guardare un altro tabù, che riguarda l’origine stessa dell’Italia nata a sua volta da una conquista coloniale, i Savoia contro il resto della penisola, il sud specialmente, qualcosa di molto meno eroico che le celebrazioni e i busti del Gianicolo. Il sud, la nostra «Affrica», come la chiamava Pascoli, è relegato nell’Unità alla miseria e alla violenza, la stessa messa in atto nell’altrove, che si prolunga nelle istanze attuali del nord padano e del razzismo verso i migranti. Quello specchio, come spiega lucidamente Dominijanni, restituisce la nostra immagine, non deformata nella menzogna di una Storia piena di omissioni, in cui si cerca di schematizzare il conflitto. Siamo ancora lì invece, con terribile evidenza, il nostro Inconscio italiano rimosso pesa e agisce. E guardarlo irrita e fa paura. Inconscio italiano è per questo un film importante, prova a innestare il rimosso nell’immaginario che per primo lo ha allontanato.
Generi senza verve
È l’invenzione nel «genere» che sembra, piuttosto, mancare ai film «di genere» visti finora, predilizione per sci-fi e catastrofe, accordata a un sentimento mondiale, nelle immagini in Piazza, da Hell a Attack the Block, aspettando oggi i Cowboys&Aliens di Harrison Ford e Daniel Craig. Certo deve essere sembrato assai più «alieno» Lothringen! di Straub e Huillet che Marco Müller, allora direttore del festival, proiettò nel ’94 in Piazza. Straub – a cui è dedicato un omaggio – ritorna a Maurice Barrès, Lothringen! era un adattamento del romanzo Colette Bodauche (1909), in Un héritier tratto invece da Au service de l’Allemagne (1905). Il luogo è sempre l’Alsazia, dove Straub è nato, francese nel cuore, e invasa dai tedeschi dopo la guerra franco-prussiana del 1871. Di questa resistenza alla germanizzazione parla il testo.
Un uomo e un ragazzo si incamminano su una strada di montagna, il giovane è un medico, l’uomo più anziano rimanda a Joseph, il personaggio del romanzo di Barrès. Lo stesso Straub, che lavora con il gruppo di sempre, da Renato Berta a Barbara Ulrich, lo «interpreta» presenza forte e silenziosa davanti alla macchina da presa, con lo pseudonimo (nei credits) di Jubarite Semaran, già utilizzato in Othon per il personaggio di Lucus.
Come in tutti i film degli ultimi anni il giovane (Joseph Rottner) «dice» il testo, l’immagine non segue né illustra, costruisce uno spazio di luce, fisicità, movimento.
Barrès era schierato apertamente contro la presenza tedesca, il medico raccontando all’uomo di quando ha salvato una donna, moglie di un contadino, «un bruto», sottolinea le sue frasi del sentimento di opposizione alla Germania. Lui, come altri compagni di scuola, hanno studiato in segreto il francese, sfidando anche la prigione per non servire i tedeschi. Il padre gli ha insegnato a rimanere perché emigrare vuol dire abbandonare tutto in mano al nemico. Eppure gli alsaziani a Parigi sono scherniti per il loro accento… Siamo su un confine, il capoluogo dell’Alsazia, tornata francese dopo la seconda guerra mondiale è Strasburgo, sede del parlamento europeo; la storia del Novecento, che il cinema di Straub scompone, è quella attuale di un’Europa unita solo da trattati, e ancorata a particolarismi chiusi.

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Un cinema sociale fra rivoluzioni e gang

 Saranno le rivoluzioni nordafricane, le lotte per l’ambiente e le nuove energie, le gang giovanili e le periferie metropolitane, i temi portanti della rassegna di cinema sociale «Terra di Tutti Film Festival», a Bologna dal 6 al 9 ottobre. Promossa dalle organizzazioni non governative Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti (Cospe) e Gruppo di Volontariato Civile (Gvc), la kermesse – giunta alla sua V edizione – porterà in scena documentari e reportage da tutto il mondo: sono 245 le pellicole che verranno mostrate nella sala del cinema Lumière. L’edizione 2011 proporrà anche un concorso fotografico: le migliori opere saranno esposte alla Casa della Fotografia dal 17 settembre al 16 ottobre, oltre che nel cuore della città a Palazzo d’Accursio.

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