La linea Maginot del mare

L’isola di Caprera, la terra che diede a Garibaldi il suo ultimo rifugio, è punteggiata da forti sabaudi. Testimoni di pietra di una gloriosa epopea militaresca. Come un ciclope di pietra, si erge a sud il Forte di Punta Rossa. Qui si vegliava sulla minaccia francese. Qui carriere si estinsero nell’attesa di un attacco mai avvenuto

 

L’isola di Caprera, la terra che diede a Garibaldi il suo ultimo rifugio, è punteggiata da forti sabaudi. Testimoni di pietra di una gloriosa epopea militaresca. Come un ciclope di pietra, si erge a sud il Forte di Punta Rossa. Qui si vegliava sulla minaccia francese. Qui carriere si estinsero nell’attesa di un attacco mai avvenuto

 
Arrivai a Caprera a fine aprile, nella finestra di bonaccia tra una maestralata e una botta di libeccio. Di notte la scuola velica, dov´ero ospitato in un bungalow, pareva il centro immobile di un tifone. Ero lì per Garibaldi e la sua ultima dimora aggrappata alla scogliera, ma Bruno Spanghero, un ufficiale di Marina delle mie parti incontrato a Roma, mi aveva dato una meta in più: «Vai a vedere i forti sabaudi – aveva detto – e scoprirai un´epopea. Sarai solo col vento e col mare». Aveva una visione tutta sua delle coste della Penisola e sulla mappa aveva indicato relitti, basi sommergibilistiche dismesse, fari abbandonati, tonnare in disarmo. Aveva la stessa mia febbre delle rovine parlanti. Di Amalfi aveva detto: «Lascia perdere i limoni, cerca i fantasmi dell´industria borbonica alle sue spalle. Capirai l´Italia».
Sazi di mare, i miei camerati dormivano alla grande nelle cuccette, ma io passai una notte insonne, come accade spesso all´inizio di un´avventura. Pensavo a quel braccio di mare tra Corsica e Sardegna dove erano passate tutte le flotte del mondo. Navi fenicie, romane e arabe. E poi Nelson e Napoleone alla vigilia di Trafalgar. Le portaerei della Sesta Flotta, la base atomica di Santo Stefano. Secoli, millenni di naufragi. E il faro di Bonifacio che pulsava all´estremità meridionale della Corsica. Pensavo, ovviamente, alla mappa dove Paolo, l´amico innamorato dei fari e dei relitti, aveva indicato, a Nordest della Sardegna, una fantomatica “Fortezza Bastiani”. Era lo stesso luogo che cercavo?
Nelle librerie della Maddalena era stato impossibile trovare qualcosa di scritto. C´erano diciotto forti lì intorno, immersi nella macchia mediterranea. Roba di dimensioni micenee. Ma pochi sapevano a cosa fossero serviti. Sull´argomento esisteva solo un libercolo esaurito, e così decine di migliaia di turisti passavano per l´arcipelago senza avere idea di cosa vi fosse accaduto tra il 1879 e l´inizio della Grande Guerra. Io avevo appreso che, in quei trentacinque anni, 30 mila uomini avevano lavorato alla costruzione di uno dei più grandi monumenti della storia militare italiana. Sembrava inverosimile. E ancora più folle sembrava che quei ciclopi di pietra fossero stati messi lì contro un´invasione francese.
Invece era davvero così. La Francia fu il grande nemico, prima del giro di valzer che ribaltò le alleanze nel 1915. «Intere carriere militari si sono consumate dentro quelle muraglie, in attesa di un attacco che non è mai avvenuto», così mi aveva svelato Toni Cattarini, un altro ufficiale delle mie parti, dopo una birra “Ichnusa” alla locanda “Liò” della Maddalena. Dunque la fortezza Bastiani indicata da Paolo, l´amico perduto, sulla mappa della Sardegna era quasi sicuramente quel pazzesco sistema difensivo. Anche lì, come nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, giovani ufficiali erano invecchiati aspettando inutilmente l´ora della gloria. Una Fatamorgana di pietra, un´inutile linea Maginot del mare.
Uscii prima dell´alba. La notte era piena di grilli e alberature immobili sbucavano dalla foresta sul lato della baia. Lontano, il richiamo di un assiolo pareva il sonar di un sommergibile. Il mirto sparava odore sensuale e nella veranda della sala-mensa stazionava il profumo del pasticcio di melanzane cucinato la sera prima da Amadou, il cuoco senegalese di quella Tortuga di velisti. Poi si svegliò lentamente il grecale, il mare si increspò, divenne argento e infine color rame. Avevo scelto il forte di Punta Rossa, il più meridionale di Caprera e il più vicino alla scuola velica. Spazio militare, ancora teoricamente off limits. Fino a poco tempo prima, gli incursori italiani lo avevano usato come terreno di allenamento per i loro sbarchi.
In un quarto d´ora fui lì e, come mi avevano detto, ero davvero solo col vento e col mare. Aggirai senza fatica un cancello con la scritta “Vietato l´ingresso” e cominciai così, in leggerezza, il mio viaggio nell´altro mondo. La fortezza era lunga e stretta, come il promontorio proteso verso Sud che ne faceva da basamento. I muraglioni ne facevano letteralmente parte. La logica mimetica dei militari creava una simbiosi perfetta tra il manufatto e la roccia giallastra coperta di agavi, licheni color senape, papaveri e strane piante spinose. Camminavo sull´orlo dei camminamenti e la luce radente del mattino proiettava la mia ombra lontano, su altri camminamenti. La natura si stava riprendendo tutto, cancellava le tracce di ruggine di rotaie, reticolati e affusti. Seppelliva i cocci di bottiglia di gloriose baldorie.
Casermette, hangar, capannoni con la scritta “Pericolo di crollo” spalancavano finestre su un mare blu cobalto e rocce dentate color ruggine popolate di cormorani. Niente di sinistro, anzi. Sentivo crescere il desiderio di nascondermi, barricarmi in quello spazio franco disertato dai turisti. Promisi a me stesso che ci sarei tornato, con un sacco a pelo, per aspettare le stelle. Il mare, l´isola, tutto era mio. Mi tuffai da un pontile percorso da rotaie a scartamento ridotto. Vidi pattuglie di “zerdi” compiere pazzesche evoluzioni sotto un´indecifrabile griglia di ferro arrugginito sospesa sull´acqua trasparente. Salii nuovamente sul crinale e sul lato d´Oriente il mare ventoso apparve come una tavola di zinco segnata da smagliature diagonali. Qualche centinaio di metri più a Sud, oltre il capo di Punta Rossa, una grande vela rossa passò come una lama, piegata a quarantacinque gradi.
Tra due casematte era cresciuto un fico e il terreno ora era coperto di finocchietto e piante grasse dai fiori color fucsia. Il luogo era di sperdimento assoluto, come se l´uomo fosse una cosa estinta. La ghiaia granitica scricchiolava come zucchero sotto i miei scarponi, ed era la stessa che Paolo mi aveva lasciato, in un vasetto di marmellata, prima di morire accanto al suo faro. L´aveva raccolta anni prima in un fondale della Corsica che gli era parso la culla perfetta della sua vita.
Il basamento dell´ultimo, gigantesco cannone era aggrappato al promontorio come un ramarro. Doveva essere un luogo di tremende mareggiate perché il mediterraneo lo circondava da tutti i lati. Solo a Capo Promontore, sulla sponda Sud dell´Istria, avevo visto qualcosa di simile; e anche quella era una zona militare che aveva salvato il luogo dallo scempio. Il grecale picchiava, e subito vidi che i muri erano sbrecciati, ma non dai cannoni. Erano bastati i frangenti a roderli via. Il mare picchiava, e intanto i graniti corrosi sbucavano tra le muraglie come teste urlanti nel vento.
Avevo perso il senso del tempo. Quando uscii dal cancello guardai l´orologio. Erano passate sei ore, e mi erano parse due al massimo. Il sole era allo zenith. Faticavo a tornare tra i vivi. La mia base dei velisti era già distante come la Luna.
(2 – continua)

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