Ciao Peppe, “biciclettaro” di razza

Ho sempre avuto un particolare feeling con Giuseppe D’Avanzo, credo almeno in parte ricambiato.

Di lui ho ammirato non solo e non tanto le capacità  professionali che tutti, ora, gli riconoscono, quanto il carattere logico e determinato e soprattutto il grande fiuto. Come scherzando gli dicevo spesso, con quelle sue qualità  avrebbe potuto fare, oltre che il giornalista, anche lo sbirro e pure il “terrorista”, essendoci per certi aspetti (solo per certi aspetti, sia chiaro) abilità  comuni alle tre professioni. Prima tra tutte – gli ricordavo – quella di “montare biciclette”, arte in cui lui era in effetti ineguagliabile e che consiste nel dare solo una prima pedalata (a un avvenimento o, nel caso, a una notizia), riuscendo a fare in modo che poi la corsa prosegua travolgente per moto proprio, in una reazione a catena, dove anche si trovano coinvolti man mano soggetti inconsapevolmente impegnati in una partita di cui non conoscono né origini né scopi, e neppure l’esistenza.

Ho sempre avuto un particolare feeling con Giuseppe D’Avanzo, credo almeno in parte ricambiato.

Di lui ho ammirato non solo e non tanto le capacità  professionali che tutti, ora, gli riconoscono, quanto il carattere logico e determinato e soprattutto il grande fiuto. Come scherzando gli dicevo spesso, con quelle sue qualità  avrebbe potuto fare, oltre che il giornalista, anche lo sbirro e pure il “terrorista”, essendoci per certi aspetti (solo per certi aspetti, sia chiaro) abilità  comuni alle tre professioni. Prima tra tutte – gli ricordavo – quella di “montare biciclette”, arte in cui lui era in effetti ineguagliabile e che consiste nel dare solo una prima pedalata (a un avvenimento o, nel caso, a una notizia), riuscendo a fare in modo che poi la corsa prosegua travolgente per moto proprio, in una reazione a catena, dove anche si trovano coinvolti man mano soggetti inconsapevolmente impegnati in una partita di cui non conoscono né origini né scopi, e neppure l’esistenza.

Ma, a parte le celie, mi pareva che Peppe fosse decisamente una rarità nel suo ambiente, dove non di rado è presente l’approssimazione e la routine.

Chiacchierando con lui e con Carlo, con il quale allora faceva coppia fissa, mi è capitato di suggerirgli che avrebbe dovuto inventarsi un giornale d’inchiesta e di battaglia, mettendo assieme una pattuglia di giornalisti di strada e di biblioteca, irrispettosi di ogni potere e di ogni convenienza, di cui lui era in evidenza il prototipo. Ma lui era troppo affezionato al suo mondo e anche al suo giornale, pur se spesso si sentiva ingabbiato in mille pastoie, che lo frenavano e contemporaneamente lo irritavano profondamente.

Di Peppe mi aveva colpito anche la dichiarata ritrosia ai momenti pubblici, che interpretavo per una sua curiosa timidezza – lui così capace e deciso –, la stessa che gli faceva mascherare il sorriso dolce e arguto dietro quei baffoni d’altri tempi.

Penso di essere stato tra i pochi, se non l’unico, a convincerlo a coordinare un momento di dibattito pubblico. Non fu per nulla facile, ma dopo di allora divenne sicuramente impossibile, dato che la serata finì, letteralmente, in una rissa. O, meglio, in un’aggressione.

Era il 12 maggio 1997. Il luogo, la Camera del Lavoro di Torino. Era stato organizzato l’ennesimo confronto sugli anni Settanta, sulle leggi di emergenza e la mancata soluzione politica, a vent’anni di distanza.

Peppe doveva presiedere e moderare. Oltre a me e a Susanna dovevano intervenire don Ciotti, Franco Corleone, lo storico Nicola Tranfaglia, il giovane deputato Nichi Vendola, il segretario della CGIL Vincenzo Scudiere, la regista Wilma Labate, l’allora portavoce nazionale della Rete Studentesca Pierfrancesco Majorino e uno sconosciuto Luca Casarini, a rappresentare il punto di vista delle giovani generazioni e dei nuovi movimenti.

Una partecipazione, quest’ultima, giudicata provocatoria dal maggiore centro sociale torinese, stanti le divisioni e le concorrenze con quello veneto, rappresentato da Casarini. Il quale – già allora non gli difettava una discreta furbizia – annusata l’aria disertò l’incontro, senza però avvisare del temporale incombente.

Che così si sfogò tutto su di me e di Susanna, le cui scelte di desistenza dalla lotta armata non venivano apprezzate dai giovanetti torinesi, la cui scarsa conoscenza dei fatti degli anni Settanta e della lotta armata era inquinata dalle tante calunnie che giravano nei nostri confronti, sapientemente alimentate da qualche vecchio rottame dell’autonomia che denigrando noi per peccati inesistenti cercava così di far dimenticare i propri, invece del tutto reali.

Fatto sta che non appena iniziammo a parlare un centinaio di ragazzotti iniziarono a contestarci, alla fine cercando di assalire il palco. Sputi, urla, spintonate, vetri rotti. Mentre i padroni di casa cercavano un improbabile dialogo con gli scalmanati e i poliziotti presenti rimanevano del tutto impassibili, l’unico che, tutto preso dal suo ruolo di garanzia, difendeva il palco e l’onore della serata era Peppe. Mi colpì la sua calma e anche il coraggio. In fondo, la situazione non prometteva nulla di buono e gli assalitori erano in numero decisamente preponderante.

Storie di tre lustri addietro. Ma, nel triste momento della sua scomparsa, mi piace ricordare Peppe così: rosso in volto, con il petto in fuori e la voce tonante, mentre mi difende in una situazione per lui decisamente eccentrica.

Ciao Peppe, cronista di razza. Alla fine ti sei dimenticato la regola di staccare dopo la prima pedalata. So che continuerai a “montare biciclette” nel nuovo posto dove sei, disvelando altarini e facendo disperare anche il Padreterno.

 Sergio

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