Striscia di terra feconda, la resistenza del jazz

MUSICA Nella rassegna romana Italia e Francia

MUSICA Nella rassegna romana Italia e Francia

Il solo di Dado Moroni e l’ensemble parigino Radiation 10 hanno concluso ieri sera la XIV edizione di Striscia di terra feconda, festival italo-francese codiretto da Paolo Damiani ed Armand Meignan (presidente della Afijma, unione di 35 manifestazioni transalpine). Cinque serate, dieci recital ospitati nella propositiva rassegna Odio l’estate (in passato Striscia… era stata accolta dalla Casa del Jazz), nessun contributo dall’amministrazione romana e forzata assenza di progetti comuni per mancanza di fondi.
Un’edizione di resistenza come ha specificato Damiani mentre da parte francese, nonostante la crisi, non mancano investimenti per la musica. Qualche esempio: la Sacem, società degli autori, finanzia vari festival tra cui questo, mentre la più volte commissariata Siae no; in Francia esiste il diritto d’autore mentre, in Italia se ne parla dagli anni ’80 (fu una delle prime rivendicazioni dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz). I nostri vicini d’Oltralpe possono far muovere gruppi numerosi e da parte italiana non si è andati oltre il sestetto (tre solo-piano, un trio); si promuove il nuovo jazz francese mentre Damiani non ho potuto far altro che chiamare l’Almond Tree (concerto saltato il 27, come quello di Christophe Monniot, causa nubifragio).
Jazz di alto livello non è mancato, a riprova che – nonostante l’assenza di una politica e di una legge sulla musica d’oggi – l’Italia ha talenti ed idee che sanno stare alla pari con i più supportati colleghi francesi. Nelle serate 26 e 28 luglio si è giocato un doppio confronto: due trii transalpini e due pianisti. Il trio del baritonista Francois Corneloup è un gruppo consolidato, con Hélène Labarrière al contrabbasso (dalla particolare voce strumentale) ed il coloristico Simon Gourbet alla batteria. I loro brani sono costruiti con sobrietà ed equilibrio, inglobano sezioni più free ed altre melodicamente accattivanti o solistiche, alternano tempo scandito e libero in una ricca tavolozza timbrica. Il Sidony Box Trio (Elie Dalibert, sax ato; Manuel Adnot, chitarra elettrica; Arthur Narcy, batteria) ha vinto le selezioni per jazz migration e sta girando l’Europa sponsorizzato dalle istituzioni musicali francesi. Età media 23 anni, creano una musica imparentata con il rock ed il punk, basata sull’accumulazione, con scansioni serrate ed effetti distorsivi. Nessuna traccia di forme jazz di cui restano l’improvvisazione e la carica ritmica, ma frammentata.
Antonello Salis e Danilo Rea, notissimi in Europa (Rea ha appena inciso un bell’album in duo con Flavio Boltro per la tedesca Act) manifestano diverse concezioni del piano. Per Salis esso non ha nessuna sacralità né filiazione europea: nelle sue possenti mani diventa una sorta di gigantesco tamburo africano il cui suono può essere modificato immettendo nella cordiera i più svariati oggetti. Se il fraseggio a cluster è in parte derivato da Cecil Taylor, il linguaggio di Salis è totalmente autonomo, un lungo e agonistico fluire sonoro in cui timbri, ritmi e temi disegnano un viaggio avventuroso e spiazzante. Rea ha la tecnica e il suono di un virtuoso classico, un gusto enciclopedico che tende alla melodia ed alla sua fiorita, zampillante variazione. Inoltre il repertorio spazia dai Beatles a De Andrè, da Monk alle ballad in un accavallarsi immaginifico e barocco, mai oltre i limiti del buongusto e spesso di sapiente, emozionante maestria (come nella conclusiva Halleluiah di Leonard Cohen).

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