Movimenti plurali fra pubblico e tecnologie

INTERATTIVITà€ Da Andrea Balzola e Paolo Rosa «L’arte fuori di sé» da poco uscito per Feltrinelli
Lontano dall’idea di demiurgo a capo di una moderna bottega, l’artista di oggi è un «creatore di relazioni», che ha nella rete il suo laboratorio sperimentale

INTERATTIVITà€ Da Andrea Balzola e Paolo Rosa «L’arte fuori di sé» da poco uscito per Feltrinelli
Lontano dall’idea di demiurgo a capo di una moderna bottega, l’artista di oggi è un «creatore di relazioni», che ha nella rete il suo laboratorio sperimentale

 Quante volte, trovandoci all’interno di un’installazione interattiva come Tavoli (Perché queste mani mi toccano?) (1995) di Studio Azzurro, mentre le nostre dita scorrevano curiose su un’immagine che si animava all’improvviso, ci siamo domandati cosa riempiva la distanza tra quell’opera e, ad esempio, Guernica? La prima risposta è che di certo il quadro di Picasso esiste comunque, nonostante e al di là del nostro sguardo, che le è esterno, mentre l’opera interattiva è una potenzialità, sovente ad alta tecnologia, la cui esistenza si completa solo attraverso l’interazione con qualcuno che sia in un fuori di sé dell’opera stessa, ovvero l’ambiente in cui essa si trova e noi spettatori . Questo fuori diventa, per Andrea Balzola e Paolo Rosa, autori di L’arte fuori di sé (Feltrinelli, pp. 219, euro 16), una situazione esistenziale dell’opera d’arte interattiva, e li porta a una riflessione sulla funzione dell’arte e dell’artista nella società attuale, caratterizzata dalla compresenza delle tecnologie multimediali.

Il sottotitolo del libro avverte che si tratta di un manifesto teso a ridefinire il ruolo e la funzione di un’arte che oggi si rapporti alle tecnologie multimediali: siamo di fronte, dunque, a un’analisi del presente in vista di un cambiamento nell’immediato futuro, e in effetti i due autori compiono una ridefinizione chiara, e densa di prospettive future, dei termini e dei soggetti che entrano in relazione nelle opere d’arte in cui si fa uso delle nuove tecnologie. Non è quindi solo una riflessione teorico-critica, ma – proprio in quanto «manifesto» – di un’analisi radicata nella prassi, ovvero nell’esperienza diretta, di chi concepisce e progetta oggi un’opera d’arte multimediale: di fronte agli innumerevoli esempi di un’arte asservita al regime del consumo imposto dall’economia del mercato – che infatuano con fascinazioni tecnologiche il pubblico estasiato e anestetizzato dei grandi musei-luna-park globalizzati, vetrine istituzionali di grandi e pochi collezionisti – sembra necessario un ri-orientamento della funzione dell’arte, in cui quest’ultima attinga alla sua forza «etica» di cambiamento e di trasformazione del mondo.
Secondo Balzola e Rosa l’arte può dunque recuperare una sua carica destabilizzante, che non sfocia solo nel produrre una rappresentazione, bensì in una riformulazione della realtà, aperta alla trasformazione, di sé e di ciò che sta fuori di sé. Nella nostra società, riprendendo un tema caro a Walter Benjamin che scriveva in un un’epoca in cui i rapporti tra arte e politica si incontravano sul terreno comune delle nuove tecnologie, l’arte deve assumersi una responsabilità politica, capace di restituire un significato autentico al termine polis: una responsabilità che garantisce all’arte una dimensione morale, accanto a una concezione della polis che riconfigura i confini di un paesaggio come quello contemporaneo occidentale dove pullulano modelli di comunità posticce accanto a sviluppi ipertrofici delle metropoli, ormai confluite in una indistinta cosmopoli globale.
L’attenzione di Andrea Balzola e di Paolo Rosa, artisti e studiosi impegnati attivamente nell’insegnamento nell’Accademia di Belle arti di Brera, si focalizza sulla concezione e sulla formazione continua – con un illuminante capitolo dedicato appositamente a quest’ultimo tema – di una nuova figura di «artista», che essi definiscono l’artista plurale. I due autori si occupano non tanto di ciò che l’artista crea in termini produttivi, quanto del suo ruolo di «creatore di relazioni» – che lavora cioè in una dimensione di progettualità partecipata. Non si tratta quindi di un artista-demiurgo a capo di un grande studio ad alto tasso tecnologico (replica moderna della bottega e delle gerarchie classiche) dove il lavoro segue l’ordine moderno della catena di montaggio, con un progettista e diversi assistenti e realizzatori. Non pensano nemmeno al modello di «arte relazionale» prefigurato da Bourriaud, all’interno del quale l’artista promuove modelli relazionali tra le persone attraverso il dispositivo artistico o un progetto architettonico. L’artista plurale è piuttosto colui che opera in una dimensione di «progettualità partecipata», nella relazione tra il pubblico e il dispositivo tecnologico, muovendosi nella rete come dentro un laboratorio di sperimentazione comunicativa e generando un circuito collettivo destabilizzante il cui fine è la «risensibilizzazione costante di un’umanità anestetizzata», frammentata da un utilizzo superficiale e inconsapevole delle tecnologie.
L’opera perde la sua configurazione esteriore finita, formale e oggettuale e si assimila a un dispositivo eventuale (concetto-chiave delineato da Agamben nel breve ma densissimo Che cos’è un dispositivo), che sollecita risposte impreviste nel pubblico, profilando un approccio originale e perfino creativo al dispositivo stesso, e lasciando spazio all’emergere delle individualità e a una nuova estetica dell’incontro e del comportamento. L’attraversamento di una installazione interattiva può diventare per lo spettatore un’esperienza che coinvolge la sua mente e il suo corpo in un movimento di uscita da sé e in un rapporto con la tecnologia che diventa problematico, poiché gli pone domande, sollecita le sue risposte, e soprattutto lo dispone a una nuova concezione del tempo.
Proprio sulla dimensione performativa della ricezione si deposita il nucleo più problematico e più aperto a sviluppi futuri, dell’intera ricerca sull’arte multimediale di Balzola e Rosa: nonostante i rischi di una deriva in chiave ludica della ricezione, le opere interattive sollecitano infatti negli spettatori nuovi modi di elaborare la propria memoria, ovvero di attraversare il tempo e di produrre e riprodurre un racconto in modi imprevedibili e in tempi non lineari, il cui flusso si interrompe, torna indietro, si ramifica all’infinito. Di fronte a una tale proliferazione di racconti «l’artista esce fuori dal sé gratificato e diventa osservatore creativo dei comportamenti scaturiti dall’incontro tra il dispositivo e gli spettatori», come scrivono gli autori ipotizzando spettatori dei loro spettatori e consegnandoci l’immagine immateriale di un artista che abita nelle loro installazioni in un tempo che si protrae all’infinito: ma non ci sarà davvero qualcuno dietro a quegli schermi?

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