Garin, il mestiere dell’intellettuale

UTOPIA E DISINCANTO
Nel volume che Michele Ciliberto ha appena dedicato al grande studioso, inedite prospettive su un percorso travagliato

UTOPIA E DISINCANTO
Nel volume che Michele Ciliberto ha appena dedicato al grande studioso, inedite prospettive su un percorso travagliato Quello che Michele Ciliberto ha dedicato a Eugenio Garin ( Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento , Laterza, pp. 162, euro 20) è certamente il libro di un allievo memore e riconoscente, la «testimonianza di un antico affetto, di una gratitudine non esaurita dal tempo». Ma è soprattutto un libro di storia, con cui si dovranno fare i conti. Un libro che rovescia molte tesi acquisite. Garin è stato, se non il maggiore, certo tra i massimi storici italiani della filosofia e della cultura del secolo scorso. A lui (che Cantimori avvicinò a Burckhardt) si deve in particolare una decisiva interpretazione del Rinascimento attraverso la messa a fuoco dei suoi rapporti con il medioevo e la modernità, l’Umanesimo e l’Illuminismo. È stato dunque uno storico di prima grandezza. Ma – o meglio: quindi – oltre che nel contributo storiografico, il lascito di Garin risiede nella «meditazione» (nel contributo in senso proprio filosofico) sul suo tempo storico e sulla «condizione umana». Il Novecento – questa ci pare la prospettiva aperta da Ciliberto – è il grande tema della ricerca gariniana: il Novecento quale specchio del Rinascimento e sua essenziale chiave di lettura. Il che evidentemente pone sotto una luce suggestiva lo stesso mestiere di storico , nella misura in cui impone di domandarsi che cosa venga «prima»: se l’analisi spregiudicata del passato o l’esperienza personale dello storico, col carico delle sue motivazioni esistenziali, culturali e psicologiche. Conversione laica La vicenda umana e intellettuale di Garin appare a Ciliberto un terreno ideale per lo studio del Novecento italiano in forza della riformulazione di una prospettiva storiografica in continuo mutamento negli oltre sessant’anni del suo magistero. Qui è già un primo punto. Da questo libro emerge un’esperienza assai più complessa e tormentata di quanto non si ritenga. Per tutta la vita Garin – uomo «passionale» e «impetuoso» lo definì Cantimori – è impegnato in un «aspro colloquio con se stesso», in un travaglio dettato da una insopprimibile inquietudine che a tratti anima la «volontà iconoclasta di rovesciare, punto per punto, le tesi che aveva sostenuto precedentemente». Tra gli anni Trenta e Quaranta, sullo sfondo del fascismo e della guerra «universale e totale», il percorso intellettuale del giovane Garin si sviluppa nella cornice di una filosofia dei valori su base esistenziale e religiosa, marcatamente anti-storicistica e anti-scientistica. Sotto l’impulso di quella che molti anni dopo definirà una «fortissima “tentazione” religiosa», Garin recupera la tradizione platonica, patristica ed ermetica. I testi che vedono la luce tra il 1937 e il ’47 ( Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina ; Umanesimo e pensiero medievale ; Der italiensiche Humanismus. Philosophie und bürgerliches Leben in Renaissance ), insistono sulla continuità tra Medioevo e Rinascimento, accomunati nel segno dell’unità tra umano e divino. Al fondamento vi è una concezione cupa – leopardiana – del processo storico, avversa a ogni provvidenzialismo. Nelle pagine «savonaroliane» di questi anni, ricorre il richiamo della morte e del dolore, l’angoscia per un’esperienza costretta a dispiegarsi in prossimità di «abissi paurosi». Tuttavia non vi è (ancora) disperazione. La storia umana (scrive Garin nel fondamentale saggio sulla «Dignitas hominis» e la letteratura patristica , 1938) «è storia di colpa e di eroismo che rende possibile la grandezza, come testimonia appunto l’esperienza cristiana che intreccia colpa e redenzione, umiliazione ed esaltazione dell’uomo». Emerge in questo chiaroscuro (da un lato l’insistenza sulla miseria della condizione umana; dall’altro, la rivendicazione della libertà quale predicato costitutivo della persona) un tema centrale in tutta la «meditazione» gariniana: il problema della libertà e della responsabilità, quindi la funzione emancipatrice della praxis nell’esperienza umana. Proprio questo elemento positivo acquista vigore e diviene cruciale tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nella fase dell’«umanesimo civile» – di certo la più «feconda e risolta» – che, grazie anche alla collaborazione con il Pci, consacra Garin alla notorietà presso il grande pubblico (sono gli anni delle celebri Cronache di filosofia italiana e de La filosofia come sapere storico ). Ciliberto parla in proposito di una vera e propria «conversione laica», segnata da una marcata politicità. Il discorso gariniano si apre a uno «storicismo» umanistico e immanentistico («terrestre»), sancendo il primato della Città terrena. Il «destino» dell’uomo è il «libero atto di scelta con cui decidere la sua essenza»: non c’è «natura umana» che non sia «conseguenza di una scelta». Muta di conseguenza, radicalmente, anche l’immagine del Rinascimento. Che ora, nel segno della concezione laica dell’ homo faber , si configura, appunto, come «umanesimo civile» e come incunabolo della modernità, secondo la periodizzazione cantimoriana che lo inquadra nel lungo arco di tempo che corre dal Tre al Settecento, «da Petrarca a Rousseau». Garin guarda adesso con attenzione e interesse agli orizzonti della nuova scienza moderna e documenta – studiando Leonardo e Galileo – la circolarità tra rivoluzione scientifica e rivoluzione culturale e filosofica. La fucina di Firenze Decisivi, in questo profondo riorientamento, sono, notoriamente, l’incontro con Gramsci e la collaborazione col «partito nuovo» di Togliatti. Al Pci Garin si avvicina spinto da un’esigenza di giustizia sociale e sulla base di una visione laica dello Stato, quale contravveleno all’incidenza clericale della Dc. Ma influisce anche il contesto culturale e umano del suo lavoro universitario. A Firenze la Facoltà di lettere e filosofia annovera nei propri ranghi un parterre de rois , figure del calibro di Cantimori e Sestan, Contini e Devoto, Longhi e Migliorini. Nonché Cesare Luporini, distante da Garin nella formazione e nelle opzioni teoriche, ma a lui vicino nella riflessione di carattere esistenziale e nella sensibilità per la dimensione civile e politica. Alla fine degli anni Sessanta Garin ha grande notorietà e peso, anche politico. Gode, anche sul piano internazionale, di un prestigio indiscusso, non solo tra gli studiosi del Rinascimento. Nel mezzo del cammin di sua vita, pare aver raggiunto la piena maturità e un equilibrio che gli permette di valorizzare al meglio un enorme patrimonio di conoscenze. Senonché questa stagione, in apparenza felice, si interrompe bruscamente tra la fine del decennio e i primi anni Settanta. Come e perché? Tensione tra sogno e realtà Un netto mutamento investe in primo luogo proprio l’interpretazione del Rinascimento. Nei grandi libri degli anni Settanta ( Dal Rinascimento all’Illuminismo , 1970; Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVII secolo , 1975; Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento , 1976) mutano funzione e rilevanza dei temi ermetici, magici e astrologici, ora in posizione centrale, a discapito del tema «civile». Non è messo in discussione, è anzi ribadito il continuum tra Rinascimento e modernità. Cambia però decisamente la fisionomia del Rinascimento, che appare ora un’epoca drammatica, segnata in radice da un senso di morte, dalla tensione tra sogno e realtà, dal conflitto tra utopia e disincanto. Garin lo scrive a chiare lettere, calcando l’accento sulla novità della prospettiva: «Non si è compreso che proprio una profonda tensione, il senso di una tragedia incombente, sono le radici profonde che segnano in modo inconfondibile artisti, pensatori e poeti: che il disperato appello alla renovatio è l’altra faccia di un senso di morte, e che la ricerca di una misura suprema non è che il tentativo di arginare la follia». È un passo cruciale. Non solo perché tra coloro che «non hanno compreso» vi è lo stesso Garin (Ciliberto sottolinea la «serrata resa di conti con se stesso»), ma anche perché in questo ripensamento del tema storiografico opera una radicale riformulazione del rapporto di Garin col Novecento. Il nesso è stretto: se il Rinascimento è il primo atto della modernità e un’epoca segnata da follia e disincanto, anche la modernità si pone sotto una luce nuova: cupa, inquietante, angosciosa. Essa resta al centro dell’interesse, ma ora l’attenzione dello storico si appunta sulla sua crisi, sul suo essere tempo di crisi . Qui il discorso va rovesciato rispetto a come si suole impostarlo. Perché questo nuovo rivolgimento? Perché questa radicale revisione dei giudizi precedenti? Con ogni probabilità, a decidere è il rapporto di Garin col Novecento. È il mutamento di questa relazione – sul quale Ciliberto a ragione insiste – a provocare la riformulazione del quadro storiografico (ovviamente traendo da quest’ultima, a sua volta, spunti e ragioni). Ciliberto indica una causa evenemenziale. Garin non condivide (in parte non comprende) le ragioni del ’68 studentesco, che considera espressione di «rivoluzionarismo astratto». Nel novembre del ’71 la distanza si trasforma in avversione a seguito di un episodio (un seminario interrotto da un gruppo di studenti in modo – scrive Garin – «oltraggioso e provocatorio») vissuto traumaticamente. Garin ne trae motivo per prendere distanza dall’impegno politico esplicito e diretto. E si allontana dal Pci senza clamori, con «profonda amarezza». Ma forse questa è appena un’occasione, e sullo sfondo gravano ragioni più profonde. Un lungo travaglio Quella che Garin vive a partire dagli anni Settanta è una delusione radicale, storica . L’equilibrio faticosamente raggiunto nei due decenni precedenti si spezza, liberando una «visione disincantatissima della realtà», non priva di timbri nichilistici. La sua è una crisi al tempo stesso politica, intellettuale ed esistenziale. Per Garin non è solo la fine di un mondo, ma anche la propria sconfitta, politica e culturale. Evidentemente la portata radicale della delusione non si spiega solo con motivi di ordine politico. Tant’è che riemerge ora con prepotenza una propensione costitutiva dell’uomo Garin, faticosamente, persino eroicamente arginata negli anni dell’impegno, ma destinata ad affermarsi nell’ultima fase della sua vita e della sua ricerca. Con ogni probabilità pesa il fatto che questo – tragico, nichilistico – è il clima congeniale a Garin: il luogo dell’anima nel quale egli ritrova se stesso ed è meglio in grado di esprimersi. Garin è soprattutto nel dramma, nella crisi: forse sta qui una ragione del fatto che quella dell’«umanesimo civile» (come osserva Ciliberto) non appare la fase «più significativa» della sua attività. Ma, al di là della vicenda intellettuale di un protagonista del Novecento italiano, essenziale per noi è altro. Il dramma vissuto dall’uomo e studiato dallo storico, il lungo travaglio che questo libro documenta con partecipata sintonia, è uno specchio del nostro tempo. Il Rinascimento di Garin non è solo l’esordio della modernità, è anche una sua limpida metafora. È la crisi del Novecento – secolo del fascismo, della guerra e dell’«agonia e morte» delle grandi culture politiche moderne; è questa crisi corrosiva, nella quale «il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere», il testo sul quale Garin trascorre la sua lunga vita, leggendovi niente meno che la «crisi della civiltà». Ed è proprio lo sforzo di comprendere questa crisi – sembra suggerire Ciliberto – l’essenziale eredità di Garin, al di là delle preziose lezioni sul Rinascimento e il Medioevo (e su Rousseau e Gramsci, sul positivismo e su Labriola). Attori sulla scena del mondo In ciò Garin trasmette – come egli stesso ebbe a dire di Antonio Labriola – una precisa «interpretazione del mestiere dell’intellettuale». L’incidenza dei «moti dell’anima» sulla prospettiva storiografica – «le radici ultime, anche esistenziali, anche strettamente autobiografiche, delle posizioni» – getta luce sul delicato rapporto tra lo storico e la realtà indagata, una luce che va osservata con cura. Non si è storici – né intellettuali – a patto di scomparire in quanto esseri umani. Al contrario: in tanto si può esserlo, in quanto si è anche uomini alle prese con il proprio tempo: portatori di un pensiero, sostenitori di una parte, attori sulla scena del mondo. Diversamente, non si è nulla, o quasi. E, nella migliore delle ipotesi, si trasmetteranno inerti documenti della propria erudizione.

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SCAFFALE
Contributi critici e giornate di studio

 La «Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin 1929-1999» è stata edita da Laterza in occasione del novantesimo compleanno di Garin (1999). Il repertorio del fondo documentale depositato presso la Biblioteca della Scuola Normale è in corso di pubblicazione («L’Archivio Garin», Edizioni della Scuola Normale di Pisa) a cura di Francesca Dell’Omodarme. Nel corso del 2009, anno del centenario gariniano hanno avuto luogo diverse manifestazioni sulla figura e il pensiero di Garin, tra cui il convegno «Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo», Firenze, 6-8 marzo 2009 e una giornata di studi presso la Normale di Pisa, i cui atti sono in corso di pubblicazione rispettivamente presso le Edizioni di Storia e Letteratura e le Edizioni della Scuola. Per un inquadramento generale dell’opera di Garin, si vedano in particolare i saggi raccolti in Felicita Audisio e Alessandro Savorelli (a cura di), «Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro», Le Lettere 2003. Tra i più recenti contributi critici si segnalano Tullio Gregory, «Eugenio Garin: un ricordo in Normale», «Quaderni di storia», LXXII (2010), pp. 11-29; Giuseppe Cambiano, «Eugenio Garin e i filosofi antichi», «Belfagor», LXVI (2010), pp. 1-27; Michele Maggi, «Il Gramsci di Eugenio Garin» e «Garin e il confronto con Croce», nel volume «Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà», Bibliopolis 2011.

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