Fotogrammi da Genova spaccata in mille anime e attraversata dal terrore

Mi ricordo i black bloc e i pacifisti con le mani bianche, la polizia che picchiava duro e il massacro della Diaz. Mi ricordo l’odore acre e il movimento di Seattle

Mi ricordo i black bloc e i pacifisti con le mani bianche, la polizia che picchiava duro e il massacro della Diaz. Mi ricordo l’odore acre e il movimento di Seattle

La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», secondo Amnesty International. Invece per il ministro della Giustizia, Castelli, non era successo nulla. Claudio Scajola, ministro degli Interni, fu meno risoluto: disfunzioni, distorsioni (resta il giallo di una licenza di sparare sugli eventuali invasori, prima ammesso, poi smentito).
Genova fu anche il G8, cioè il summit degli otto paesi più importanti, cioè più forti, al mondo. Che cosa sarà mai il G8 di fronte alla globalizzazione, che alcuni volonterosi cosiddetti no-global avrebbero voluto chi bloccare chi riorientare e che continua a dare il segno della crisi d’oggi?
Genova doveva essere il banco di prova del movimento di Seattle. Si può obiettare, che di tanto entusiasmo d’allora, di tanto impegno, qualche cosa è rimasto, una coscienza tra riconoscimento dei diritti, ecologismo, pacifismo forse, una coscienza diffusa ma minoritaria, capace di suggerire costumi individuali o di gruppo più che politiche collettive, ma anche separazioni attorno a singoli progetti piuttosto che un disegno generale e un fronte comune di lotta.
Di quei giorni a Genova, dieci anni fa, mi restano alcune immagini.Le barriere che racchiudono la città proibita, la zona rossa, titanico lavorio di fabbri e saldatori per chiudere ogni accesso, per impedire quell’osmosi tra quartieri diversi che è l’anima stessa di una città. Il giorno della prima manifestazione, quella dei migranti, quella dei cinquantamila tra i quali marcia pure Manu Chao, giovedì 19 luglio, scendendo verso il porto, al corteo si presenta una muraglia di decine e decine di container. Gli scudi delle tute bianche, venerdì 20 luglio, si alzano davanti allo stadio Carlini, dove si sono accampati per la notte centinaia di ragazzi. Don Gallo, con il cappello nero in testa, invita alla calma. Pare di partecipare a una recita, con un inale che prevede la violazione della zona rossa, da parte di alcuni manifestanti. Tutto concordato, così gira voce, giusto per prender atto di una vittoria simbolica. Quando si scende verso Brignole, lontano già si leva il fumo nero, odore acre di lacrimogeni, una macchina brucia. Comincia il disastro.
Il bancomat di piazza Alimonda viene fatto a pezzi da alcuni black bloc, altri corrono a disselciare qualche metro quadro di strada per armarsi di sanpietrini. S’affaccia la polizia, i black bloc se ne vanno, la polizia si accanisce su una ragazza inglese. La polizia, il grosso, sta pronta qualche decina di metri più in là. A quel punto vedo alcuni blindati dei carabinieri partire. I colleghi rimasti a terra incitano: “Avanti, fategliela vedere”. Che cosa c’è da vendicare? In piazza Alimonda muore Carlo Giuliani, ucciso da una pallottola, schiacciato una volta, due volte, da un defender che manovra avanti e indietro sul suo corpo.
I cavalli dei carabinieri aspettano a poche decine di metri da Piazza De Ferrari. Sono corazzati come per un torneo medioevale. Non si curano delle autorità che stanno arrivando a Palazzo Ducale per una frugale cena di gala. Auto blu, capi di stato, ministri, autorità nel silenzio di una città morta, dove non gira nessuno, i negozi sono chiusi, le finestre sono chiuse, l’aria è tersa. Poliziotti e carabinieri che sabato 21 non sono di servizio stanno raccolti di fronte alla fiera. Da lì si può osservare quanto sta succedendo verso Boccadasse, oltre piazza Rossetti, dove stanno per sfilare quelli della rete Lilliput, Mani Tese, organizzazioni cattoliche, quelli che si battono per la Tobin Tax, quelli che si tingono la faccia di bianco per mostrare i loro pacifici sentimenti, i Beati costruttori di pace, Legambiente, i metalmeccanici della Fiom, molti militanti dei partiti di sinistra (malgrado la diserzione dei Ds, che giudicano troppo pericolosa quella manifestazione). Da qui, dalla fiera, partono i drappelli per gli attacchi al corteo.
Da qui s’avanza anche terminator, o qualcosa del genere, grande, muscolare, scarpette da corsa, imbottiture alle spalle e alle ginocchia, casco da motociclista, niente che ricordi la divisa d’ordinanza, che dovrebbe essere quella di un finanzie re. All’inizio di tutto però è un gruppetto di una decina di black bloc. Fronteggiano i reparti dei carabinieri. S’avvicinano. Un gruppo di contadini di Confédération paysanne, che hanno i banchetti con i loro prodotti nei giardinetti, cerca di fermarli. Non li ferma la polizia, che avrebbe potuto facilmente aggirarli. I black bloc cominciano a scagliare pietre, a sfondare vetrine, a incendiare. A quel punto si può decidere di intervenire, aggredendo, picchiando, senza risparmio. Un anziano poliziotto, romano, mi regala una bottiglia d’acqua e sussurra: “Questi hanno perso la testa”. Lui che era di servizio in strada nei giorni del Sessantotto . I black bloc sono spariti.
La palestra della scuola Diaz è un tappeto di indumenti, di brioches schiacciate, di tubetti di dentifricio e di spazzolini da denti, di creme solari e di asciugami e di marmellata. Qui dormivano i reduci dalla manifestazione. Non ci sono black bloc. Ma la polizia entra, picchia, distrugge. Ricordo la pesante cancellate esterna piegata dalla forza di un blindato, il sangue sui caloriferi e sul parquet, le ciocche dei capelli sulle scale. Questa sarebbe una perquisizione, tra sabato e domenica 21 e 22 luglio.
Il G8 finisce con un morto, dopo una infinità di lacrimogeni, di manganellate, di violenze, con i poliziotti che nella caserma di Bolzaneto infieriscono sulle loro vittime e che cantano Faccetta nera. Il lunedì mattina i carabinieri convocano una conferenza stampa, al comando regionale (quello che ospitò Fini), in un bel giardino solare, per mostrare che cosa ha prodotto la perquisizione alla Diaz: su un tavolo, martelli da carpentiere (la scuola è in ristrutturazione), chiodi da carpentiere nella bottiglia d’acqua minerale tagliata a metà, assi da cantiere, qualche indumento nero, qualche copricapo nero, i bastoni da giocoliere, due bottiglie molotov. Le hanno trovate il giorno prima in strada dietro una siepe: tanto vale rifilarle a quelli della Diaz.
Menzogne, mezze verità, verità negate, violenze, imbecillità: Genova sembra la prova generale di un paese golpista. Non sarà così. Vorrei aggiungere: anche per merito di una informazione, che, formale o informale, non tacque, denunciò tutto.

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