Il sistema dell’arte non è un brand

SCAFFALI Il primo numero della rivista «No Order» diretta da Marco Scotini

SCAFFALI Il primo numero della rivista «No Order» diretta da Marco Scotini

 No Order, Art in a Post-Fordist Society, diretta da Marco Scotini, pubblicata da Archive Books di Berlino, bilingue e a cadenza annuale, è il nuovo progetto editoriale che vuole trattare e approfondire gli elementi strutturali che fondano il sistema dell’arte, nell’epoca post-fordista. Niente a che vedere con le solite e innumerevoli riviste d’arte contemporanea che si affastellano continuamente sul mercato globale, formattate sull’idea consumo-consenso, né con i sempre più numerosi magazine patinatamente vuoti di pensiero critico.

No Order potrebbe perfino apparire come una rivista «inadeguata» in un sistema di comunicazione globale acritico e «gridato», spettacolare e standardizzato. In realtà No Order è una sorta di progetto critico / autocritico che vuole attraversare le pieghe dell’industria culturale. Si intende, qui, riflettere sul nodo centrale che oscilla, foucaultianamente, tra poteri e saperi. Dinamica quest’ultima costantemente schivata da un sistema culturale (artistico soprattutto) che tende ad auto-avvalorarsi attraverso la imposizione di format espositivi, eventi spettacolari, modelli effimeri estetici nello stile «usa e getta», incarnato dall’attuale trend turbo-consumistico.
Sviare la riflessione da queste forme strutturali su cui il mercato dell’arte contemporanea si inerpica, almeno dall’inizio degli anni 90, significa in qualche modo subirlo e probabilmente accondiscendere alle sue contraddizioni.
I nuovi soggetti sociali e le pratiche di ridefizione che governano e manipolano il sistema stesso sottendono quanto oramai la struttura portante sia condivisa tra imprenditoria, capitale internazionale e istituzionalizzazione dell’arte in uno standard che crea sempre più profitto, consenso, speculazione e sempre meno interesse per il «senso» dell’oggetto artistico.
Da questo reale sistema – irreggimentato in brand espositivi e in blockbuster events (le numerose e standardizzate bienniali e fiere di arte contemporanee), pilotati da una casta curatoriale sempre più manageriale che da circa un ventennio si avvicenda per i vari continenti – si evince quanto l’arte contemporanea sia indirizzata verso un processo di «controllo» del mercato e verso lo svuotamento del pensiero critico e quanto sia «utilizzata» come puro spazio del loisir e del consumismo.
Nel saggio di Scotini Il Brand Manifesta viene analizzato il caso di Manifesta che, secondo l’autore, fornisce il dispositivo strategico di un progetto post-fordista europeo gestito e regolato da imprese, governi nazionali, marketing e magnati locali, «…incarna questa triplice dimensione territoriale (di plusvalore), allo stesso tempo culturale (nel produrre reti di comunicazione) e politica (come gestione territoriale)». A tutto ciò, si allaccia la questione della politicizzazione della cultura nell’attuale sistema in cui la comunicazione domina la cultura stessa, ossia in cui la macchina mediatica rappresenta l’ossatura su cui vengono imperniati gli eventi culturali più che sui contenuti.
I dati trionfalistici sventagliati dalle varie biennali, svicolano nettamente dai contenuti o non-contenuti che tali eventi propongono. Viene spontaneo domandarsi, come fa Scotini, perché la macchina attoriale della scena artistica, dunque gli artisti, esitino a confrontarsi con i modi e i luoghi dell’economia cognitiva. «Non è che la scarsa fotogenicità di questa nuova classe sociale coincida con la sua altrettanto scarsa forza politica?»
Probabilmente la riflessione su questi meccanismi sistemici è che la cultura contemporanea soffre delle stesse caratteristiche della politica contemporanea. Delle sue aporie, delle sue derive.
L’impostazione della «rivista» (è quasi penalizzante definirla tale nel suo poderoso tomo di 400 pagine), tra l’altro bellissima nella sua veste grafica e inconsueta nella scelta «inadeguata» delle immagini, è architettata in tre sezioni: «Time Zone», una sorta di cartografia dei mercati emergenti dell’arte contemporanea come l’Europa dell’Est; «Play Time» che è il corpo centrale dedicata al passato analizzato attraverso gli artisti. «Time Machine» propone invece la discussione sul tempo come momento centrale del capitalismo. Nel suo primo numero No Order pubblica i saggi di Maurizio Lazzarato, Vasif Kortun, Astrit-Schmidt-Burkhardt, Roger M.Burgel, Alexei Penzin, Nelly Richard e molti altri; nel suo board fluttuano: il sociologo iraniano Asef Bayat, il regista Harun Farochi, l’artista Peter Friendl. Maurizio Lazzarato, il teorico Achille Mbembe, l’arista Angela Melitopoulos, l’economista Christian Marazzi, la politologa Françoise Vergès. I prossimi numeri saranno dedicati all’Africa e al Medio Oriente.

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