Parliamo di forme di lotta

Nel decennale del G8, riflettiamo sui linguaggi dei movimenti, sulle pratiche politiche e sulla loro efficacia. Per liberarci da una cultura militarista, e dal virilismo e dalla logica che rimuove libertà  e differenze

Nel decennale del G8, riflettiamo sui linguaggi dei movimenti, sulle pratiche politiche e sulla loro efficacia. Per liberarci da una cultura militarista, e dal virilismo e dalla logica che rimuove libertà  e differenze

 Dopo le manifestazioni in Val di Susa la rete si è popolata di videoracconti di chi ha manifestato pacificamente contro la Tav, carichi di frustrazione e di rabbia per l’arbitrio della polizia e poi per la falsificazione dei media. Chi partecipò alle manifestazioni di Genova contro il G8 del 2001 conosce bene questo stato d’animo. Quelle giornate furono per molti un passaggio traumatico dopo il quale per molto tempo è stato impossibile uscire dalla visione ipnotica della violenza, dal claustrofobico senso di impotenza. Ma la politica è trasformare la rabbia e l’indignazione nella costruzione collettiva di un’idea alternativa di cultura, di vita, di società. Tra poco a Genova molte iniziative torneranno a quelle giornate: è possibile farne occasione di riflessione sul nesso tra politica, conflitto violenza e radicalità attualizzando la riflessione su quello che le nuove mobilitazioni ci raccontano senza restare prigionieri della commemorazione?

Sarebbe un errore ridurre una storia ricca e plurale al ricordo della repressione e della sospensione delle garanzie democratiche. La grande sperimentazione dei social forum di Genova 2001 non può essere schiacciata sugli scontri. Non solo: in questi dieci anni di mobilitazioni, crescita e crisi del movimento no global, sono nate esperienze che ne hanno raccolto alcune intuizioni e superato i limiti della deriva leaderistica, della semplificazione degli schieramenti, della tendenza a stigmatizzare le differenze interne come “tradimenti”. E soprattutto si è messo a fuoco che questi vizi non sono neutri, ma frutto di culture patriarcali dominanti.
Negli ultimi anni le lotte degli studenti, dell’università, dei precari, le mobilitazioni delle donne e del movimento glbt, i flash mob, le pratiche partecipative diffuse e radicate nei comitati per i beni comuni, hanno costruito forme di mobilitazione innovative. Sono esperienze che preferiscono l’orizzontalità alla delega e allo schieramento e non riproducono modelli viriloidi nel proprio modo di manifestare. Esperienze capaci di articolare il conflitto oltre lo scenario dell’appuntamento di piazza, nella dimensione quotidiana, territoriale, culturale, diffusa.
Queste esperienze ci dicono che la radicalità delle proprie ragioni e del proprio desiderio di trasformazione non si misura sulla disponibilità allo scontro in piazza, sulla sfida con la polizia per attraversare una linea rossa. La radicalità di un movimento si misura sulla sua capacità critica, sulla sua proposta innovativa rispetto all’ordine delle cose, sulla sua capacità di smascherare linguaggi di potere invisibili e forme di dominio diffuse e di di riconoscere le forme di complicità con tutto quello che ci sembra naturale: la gerarchia tra uomini e donne innanzitutto.
È possibile inventare forme di lotta efficaci e coerenti con le ragioni di chi vuole opporsi alla logica del potere: chi ha occupato i tetti, chi ha manifestato sui monumenti, chi ha tenuto le lezioni in piazza, chi durante il pride ha espresso la propria irriducibilità ai modelli dominanti di virilità e femminilità è meno radicale o ha meno rabbia di chi sceglie di sfondare i cordoni della polizia?
Tuttavia l’originalità di una pratica politica deve essere riconosciuta, tematizzata, resa patrimonio comune, non restare implicita. La scelta delle forme di lotta, dei linguaggi, delle forme di organizzazione e di conflitto ha a che fare pienamente con la politica.
In molte mobilitazioni le donne hanno un ruolo decisivo ma senza che questo venga riconosciuto come dato che trasforma quei percorsi. In molte lotte le dinamiche violente, il linguaggio utilizzato per denigrare l’avversario (pensiamo alla Gelmini) fanno ricorso alla volgarità misogina o omofoba che a stento viene problematizzata.
L’accettazione dello scenario dello scontro regala al governo lo spunto per criminalizzare e liquidare le mobilitazioni e accetta come essenziale la visibilità mediatica: conta chi, con gli scontri, conquista il servizio del Tg. Questa contraddizione diviene sempre più stringente di fronte a un governo che ha risposto ad ogni mobilitazione sociale con la violenza, l’arroganza e la criminalizzazione. L’applauso al blindato che brucia mentre Berlusconi umilia il Parlamento nel dicembre scorso fotografa un esito frustrato e impotente. Per fare questa critica non c’è nessun bisogno di ricorrere alla cultura del sospetto e allo spionaggio sugli infiltrati. Oggi, come dieci anni fa a Genova questo nodo viene spesso rimosso e questo conflitto anestetizzato con una sorta di “topografia indifferente”: pratiche diverse convivono una accanto all’altra senza reciproca interrogazione, quasi riconoscendo una “divisione dei ruoli”.
L’apertura di una riflessione libera e limpida è frenata proprio dalla retorica che ricorre al feticcio dell’unità e della solidarietà del movimento. È invece possibile rifiutare la distinzione in “buoni e cattivi” proposta dai telegiornali e al tempo stesso affermare un’idea di movimento plurale in cui la critica e il confronto siano liberi dall’uso della retorica del tradimento, della fedeltà, dello schieramento. La violenza non è, infatti, solo politicamente inutile, è culturalmente subalterna. Proprio in occasione del G8 di Genova molte donne firmarono il documento «lontane dai militari e da chi li imita» che denunciava la subalternità culturale della rincorsa alla simmetria simbolica che molti inseguirono.
È necessario costruire uno sguardo critico non per perbenismo o timidezza, quindi, ma al contrario per l’esigenza di una maggiore radicalità. Non ci emoziona il gesto atletico del lancio della bottiglia contro i blindati, vogliamo sottrarci alla seduzione della sfida eroica scudi contro scudi, resistiamo a essere intruppati in plotoni ordinati, ci annoia giocare a risiko con le strategie in piazza o in montagna.
Non ci piacciono i corpi militari, i corpi collettivi in cui perdere la nostra singolarità e ci spaventa la seduzione che esercita, soprattutto su molti maschi, l’emozione di sentirsi parte di un “corpo unico” che si scontra col nemico. Rifiutiamo qualunque pratica che chieda alle persone di omologare la propria irriducibile singolarità. Vogliamo liberarci da una cultura militarista, dal virilismo, dalla logica che rimuove la libertà e la differenza di ognuno e ognuna.
A dieci anni dal G8, grazie al gruppo “lo sbarco” si terrà a Genova un’occasione di riflessione su linguaggi e forme di lotta e di partecipazione. Tra gli obiettivi citati nella convocazione quello di “Liberare i conflitti,riconoscere le differenze”. Molte esperienze diverse proveranno a riannodare il filo di questa ricerca.
*Associazione Maschile Plurale

*******************
Pink, disobbedienti, azione diretta. I colori della rivolta alla prova della storia

 La settimana che si apre è quella del decennale del G8 di Genova. Numerose iniziative, di cui vi daremo conto puntualmente, ricorderanno quelle giornate, la repressione violenta del movimento e i suoi momenti topici: l’assassinio di Carlo Giuliani e la mattanza nella scuola Diaz. Una di queste sarà dedicata ai linguaggi e alle pratiche politiche. Già all’epoca la discussione era serrata, e il cosiddetto «movimento dei movimenti» la risolse in maniera «liberale»: nessuna distinzione tra «buoni e cattivi» e ognuno in piazza con le sue modalità, anche se le tensioni e le differenze non mancavano. Addirittura, nei controvertici che precedettero quello di Genova la rispettosa distinzione di pratiche assunse colori diversi: i «pink» erano l’ala creativa e festosa del movimento (ma non meno radicale degli altri); le «tute bianche» quelli che miravano alla dimensione simbolica del conflitto, e alla sua valenza mediatica; i «blu» (poi diventati «neri») quelli che pensavano invece all’«azione diretta contro il capitale». La repressione di Genova fece saltare tutto, mostrando in tutta la sua potenza la violenza del potere. Voi cosa ne pensate? Più efficace la creatività o l’«azione diretta»? La dimensione simbolica o quella concreta? E tra queste, qual è la più radicale?

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password