È passato poco più di un anno dal 5 maggio 2010, quando centomila greci assediarono il parlamento di Atene al grido di kleftes! (ladri), rivolto a un’intera classe politica giudicata responsabile della crisi e incapace di gestirla.
È passato poco più di un anno dal 5 maggio 2010, quando centomila greci assediarono il parlamento di Atene al grido di kleftes! (ladri), rivolto a un’intera classe politica giudicata responsabile della crisi e incapace di gestirla.
All’originaria mobilitazione di una sinistra frammentata e litigiosa (il partito comunista, Kke, e la coalizione Syriza continuano ad avere due agende diverse e a scendere in piazza separatamente) si è aggiunta nelle ultime settimane quella dei cosiddetti “indignati”, che ha dato alla rivolta greca un carattere autenticamente “popolare”, poiché ormai attraversa tutti gli strati della popolazione (eccetto la borghesia, che non è chiamata a pagare la crisi) e non più soltanto i sindacati e le forze politiche progressiste.
A ribellarsi è quell’ampia porzione di società che negli ultimi anni ha tratto benefici dall’ingresso del paese nell’Unione monetaria nel 2001. Una classe media e un proletariato che, grazie all’accesso facile al credito e a servizi pubblici convenienti, avevano potuto migliorare il proprio livello di vita. Milioni di esseri umani a proposito dei quali troppo spesso – anche a sinistra – si sente dire che vivevano al di sopra delle proprie possibilità e che, tutto sommato, il disastro del debito ellenico è colpa loro. L’idea che Atene in deficit fosse complementare a Berlino in surplus e una critica del modello di sviluppo che l’Ue ha promosso in Grecia sembra non sfiorarci nemmeno. E forse ci vorrà ancora del tempo per arrivare alla conclusione che il problema non è Atene, ma il fallimento della politica neoliberale dell’Unione Europea.
Il movimento però ha capito fin dal suo esordio che il «piano di salvataggio» imposto da quella che ha ribattezzato Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione Ue) è destinato a far ripiombare la Grecia nella povertà, perché non prevede alcun progetto di sviluppo. E che la stessa ricetta potrebbe avere risultati disastrosi in Irlanda e Portogallo.
Dalla primavera dell’anno scorso, con una dozzina di scioperi generali, i lavoratori lottano contro il meccanismo che prevede che i prestiti della Troika siano ripagati con le cosiddette «misure d’austerità»: tagli a salari, pensioni, spesa pubblica e aumenti dell’iva che colpiscono i ceti meno abbienti. Si oppongono a «piani di salvataggio» che non vanno a pagare stipendi e pensioni ma servono a salvare le banche pagando interessi su interessi. Misure che sarebbe più onesto chiamare «macelleria sociale», attuate mentre i ricchi ritirano i capitali dagli istituti di credito ellenici e l’esecutivo non riesce a colpire gli «inafferrabili» grandi evasori.
Milioni di persone in Grecia, da oltre un anno, gridano al mondo queste cose e denunciano quella che percepiscono come un’umiliante perdita di sovranità: prima le finanze, poi anche la politica greca sono state messe sotto tutela da parte di organismi – la Bce e l’Fmi – che non sono eletti democraticamente e che rispondono a interessi particolari.
Schiacciato tra i creditori internazionali da un lato e la protesta dall’altro, il governo «socialista» del premier Papandreou ha risposto concedendo tutto ai primi e nulla ai dimostranti. Nel corso di questi lunghi mesi, per tenerli lontani da piazza Syntagma e dagli altri luoghi dove il potere ratificava i diktat della Troika, la polizia ha esploso migliaia di candelotti lacrimogeni pieni di gas CS, il cui uso è bandito dalla maggior parte dei paesi europei.
I media e la maggior parte delle forze politiche italiane si sono mostrati finora sordi nei confronti delle rivendicazioni di questo movimento al quale sarebbe invece saggio prestare molta attenzione, nel momento in cui la crisi continua e Tremonti…
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